p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 6 Giugno 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 6 Giugno 2021.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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L’alleanza è l’anello della sposa

Nell’Antico Testamento il termine alleanza ricorre ben 286 volte e questo dà l’idea dell’importanza che Israele ha attribuito a questa istituzione. L’ha impiegata come immagine per esprimere il suo rapporto con il Signore. Ma che significa fare alleanza con Dio?

Parlare di contratto bilaterale è approssimativo e anche deviante. La prima alleanza, stipulata con Noè e, attraverso di lui, con l’umanità intera e “con ogni essere vivente, con uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali usciti dall’arca” (Gn 9,8-11), fu unilaterale, solo il Signore si assunse impegni e non pretese nulla in cambio; promise che non ci sarebbero più state le acque del diluvio, malgrado sapesse che l’uomo avrebbe continuato a essere infedele, “perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gn 8,21).

Chiamò Abramo dalla Mesopotamia per dargli una terra benché Abramo non avesse fatto nulla per meritare questo dono: gli era stato solo chiesto di credere all’amore gratuito. Per convincerlo, Dio fece con lui un’alleanza e la sancì con un rito (Gn 15). Il patriarca non doveva temere, sarebbe entrato in possesso della terra, perché il patto del Signore era inviolabile: era fondato su una sua parola, solenne, confermata da un giuramento.

La gratuità e l’impegno unilaterale caratterizzano le alleanze di Dio. Lungo la sua travagliata storia, Israele ne mantenne il ricordo e, anche nei momenti più drammatici, non perse mai la speranza, cosciente che la predilezione del Signore per lui non sarebbe mai venuta meno. Avrebbe potuto peccare fin che voleva, il Signore non avrebbe mai revocato la sua alleanza, perché, senza chiedere alcuna contropartita, aveva promesso di benedire il suo popolo. Le alleanze di Dio non hanno nulla di contrattuale, sono pura grazia.

Eppure il Signore si aspetta una risposta dall’uomo: non gli chiede di sottoscrivere un patto, ma di accogliere la sua proposta di mutua appartenenza, come avviene fra lo sposo e la sposa. L’eucaristia… è lo scambio degli anelli.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“La celebrazione eucaristica è il banchetto di nozze con il Signore”

Prima Lettura (Es 24,3-8)

3 Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!”.
4 Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. 5 Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
6 Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
7 Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”.
8 Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.

È un bisogno dell’uomo convalidare con qualche gesto gli impegni che si assume. Nella tribù africana in cui per alcuni anni sono vissuto, il patto viene ratificato in modo molto semplice: i due contraenti prendono un lungo stelo d’erba, lo rompono e ognuno getta dietro le spalle il pezzo che ha in mano. Così dichiarano il reciproco impegno a gettare lontano da sé ogni divisione, divergenza, conflitto.

Erano solenni e anche molto complicati i riti con cui, nell’antichità, i grandi sovrani sancivano l’alleanza con i loro vassalli. La Bibbia ne riferisce alcuni, impiegati anche dagli israeliti. Il più cruento consisteva nello squartare in due parti un vitello e nel far passare i contraenti fra le sue metà, dichiarando di essere disposti a subire la sorte toccata all’animale se avessero infranto il patto (Ger 34,18). È a questo rito che fa riferimento l’alleanza stipulata da Dio con Abramo (Gn 15), ma va notato che, nell’occasione, fu solo il Signore a passare, in una fiamma ardente, fra gli animali divisi.

L’inviolabilità di un patto poteva essere stabilita anche attraverso il gesto di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo accordo era detto “alleanza di sale” (2 Cr 13,5), perché, come il sale, doveva essere mantenuto incorruttibile.

Il brano di oggi fa riferimento a un altro rito: quello con cui Israele sigillò la sua alleanza con il Signore. Il fatto accadde al terzo mese dall’uscita dall’Egitto (Es 19,1).

Il popolo era radunato ai piedi del Sinai e Mosè, dopo essere ripetutamente salito sul monte per dialogare con il Signore, riferì agli israeliti le parole che aveva ascoltato da Dio.

Il popolo non ebbe esitazioni e, convinto e risoluto, per due volte ripetè il suo impegno: “Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!” (v. 3.7).

Mosè mise per iscritto le parole di Dio. Poi preparò l’occorrente per la celebrazione: costruì un altare e attorno collocò dodici blocchi di pietra. Quando tutto fu pronto, incaricò alcuni giovani di offrire animali in sacrificio al Signore (vv. 4-5), prese il sangue delle vittime e ne versò metà sopra l’altare e metà sopra le dodici pietre (vv. 6-8).

Per comprendere questo rito va ricordato che per i semiti il sangue era la sede della vita (Lv 17,11-14). Versare il sangue dell’uomo, cioè uccidere, era assolutamente proibito (Gn 9,5-6); quello degli animali spettava a Dio, signore di ogni vita, per questo, nei sacrifici cruenti del tempio, il sangue veniva sparso sull’altare, che rappresentava Dio.

Ora diviene chiaro il significato della celebrazione dell’alleanza ai piedi del Sinai. Versando il sangue, metà sull’altare e l’altra metà sul popolo, simboleggiato dalle dodici stele, Mosè stabilì un intimo legame di comunione fra Israele e il Signore. Da quel momento, Dio e il popolo divennero partecipi di una stessa vita, erano come membra di un unico corpo, legati da un unico destino. Le vicissitudini, le sofferenze, le gioie dell’uno coinvolgevano anche l’altro, toccare il popolo equivaleva a colpire Dio, perché, dice il Signore: “Come la cintura aderisce ai fianchi di un uomo, così io volli che aderisse a me tutta la casa di Israele e tutta la casa di Giuda, perché fossero mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria” (Ger 13,11).

Per essere felice, per rimanere libero, Israele avrebbe dovuto mantenere la promessa fatta al Sinai, avrebbe dovuto credere che le Dieci parole che aveva ascoltato non erano precetti ingiustificati, ma un dono del Signore che gli indicava il cammino della vita.

Israele fece l’esperienza che “l’uomo non è padrone della sua via, non è in potere di chi cammina il dirigere i suoi passi” (Ger 10,23). Infranse il patto, tradì gli impegni presi, ma Dio non si arrese e decise di stringere una nuova alleanza, non una riedizione di quella del Sinai, ma una qualitativamente nuova: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, un’alleanza che essi hanno violato. Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo” (Ger 31,31-33). “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26-27).

Anche per sancire questa alleanza sarà necessario del sangue, non quello degli animali che si è dimostrato inefficace, ma quello di colui che offrirà se stesso in sacrificio “per la nuova ed eterna alleanza”.

Seconda Lettura (Eb 9,11-15)

11 Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, 12 non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna.
13 Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, 14 quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente?
15 Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la rendenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.

Espiare il proprio peccato significa, nell’accezione comune, scontare una colpa subendone la punizione. Nelle religioni pagane l’espiazione avveniva mediante sacrifici e offerte che avevano lo scopo di placare la divinità offesa.

Nella Bibbia l’espiazione ha un altro significato. Non intende calmare Dio adirato e nemmeno punire l’uomo per il male che ha fatto, ma agire su ciò che ha interrotto il loro rapporto.

Questo modo diverso di intendere l’espiazione deriva da un modo diverso di concepire Dio e il peccato. Il Dio d’Israele non si scaglia mai contro il suo popolo, anche se è stato infedele, vuole che si converta, che ritorni alla vita, per questo chiede un cambiamento di pensieri e di azioni.

L’uomo ha però bisogno di manifestare, anche attraverso riti, il suo ripudio del peccato. È per questo che, all’inizio di ogni nuovo anno, Israele celebrava il grande giorno del perdono, lo Yom Kippur, dedicato interamente al digiuno, alla preghiera, alla lettura della parola di Dio e ai riti espiatori. Le cerimonie e i sacrifici si svolgevano nel tempio e culminavano nel rito dell’aspersione col sangue degli animali – com’era accaduto ai piedi del Sinai – del coperchio dell’arca dell’alleanza che si trovava nel Santo dei Santi e che indicava la presenza del Signore. Con questo gesto, il sommo sacerdote intendeva ristabilire la comunione di vita fra Dio e il popolo, che era stata sancita da un’alleanza e che il peccato aveva distrutto.

L’autore della Lettera agli ebrei si richiama a questo rito dello Yom Kippur per stabilire un confronto fra gli antichi sacrifici espiatori e l’opera redentrice di Cristo.

Nell’antica alleanza veniva usato il sangue dei capri e dei vitelli. Come avrebbe potuto il sangue di animali ottenere l’effetto sperato? Il sommo sacerdote doveva ripetere ogni anno lo stesso rito, proprio a causa della sua inefficacia.

Cristo, invece, non è entrato in un santuario di pietra, ma in cielo e ha offerto, una volta per tutte, il proprio sangue, un sangue che espia davvero, cioè ristabilisce per sempre e in modo definitivo i rapporti fra Dio e l’uomo.

È per questo che gli evangelisti notano che, nel momento della morte di Gesù in croce, “il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso” (Mc 15,38). Non avvenne la rottura materiale della cortina che separava il Santo dal Santo dei Santi, nel tempio di Gerusalemme, ma della barriera che separava gli uomini da Dio e che era stata eretta dal peccato: questa è stata abbattuta per sempre.

Non c’è più bisogno del sangue degli animali, che è sempre stato inefficace. È il sangue di Cristo che oggi viene offerto a chi partecipa alla celebrazione dell’eucaristia. Chi si accosta per riceverlo ottiene il perdono dei peccati e in lui è ristabilito il legame di vita con Dio.

Vangelo (Mc 14,12-16.22-26)

12 Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?”. 13 Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo 14 e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? 15 Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi”. 16 I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua.
22 Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. 23 Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24 E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. 25 In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”.
26 E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Leggendo la prima parte del brano (vv. 12-16) si percepisce che ci si sta avvicinando a un momento drammatico, si ha la sensazione che Gesù e il gruppo dei discepoli si muovano con circospezione, perché sono in pericolo a causa dell’odio e delle minacce dei sommi sacerdoti. Si trovano a Betania e, per celebrare la cena pasquale, devono recarsi a Gerusalemme, l’unico luogo in cui si può mangiare l’agnello. C’è un segno di riconoscimento, concordato – pare – da Gesù con il proprietario di una casa, situata nella parte alta della città, quella dove risiedono i ricchi, e questo segno particolare accentua l’aura di mistero che avvolge tutta la scena. Due discepoli precedono il gruppo per preparare, al piano superiore dell’abitazione, un’ampia sala per la cena.

Per cogliere il messaggio che l’evangelista vuole trasmettere, bisogna andare oltre quello che, a prima vista, pare un semplice resoconto stenografico e il primo dettaglio che va rilevato è che l’iniziativa di celebrare la Pasqua non parte da Gesù, ma dai discepoli (v. 12). Sono loro che vogliono fare memoria della liberazione dall’Egitto, liberazione da cui ha avuto inizio la loro storia. Non immaginano ciò che accadrà quella stessa sera durante la cena: come rappresentanti delle dodici tribù d’Israele verranno coinvolti nella nuova Pasqua.

Un secondo particolare: l’incaricato di accompagnare i discepoli nella sala del banchetto è un servo che svolge un servizio riservato alle donne. Non è un dettaglio banale, ma il segno del cambiamento dei rapporti sociali. È la percezione di questo capovolgimento a guidare i discepoli verso il luogo della festa, quella cui Gesù sta per dare inizio. Nella sala del banchetto entra chi sa vedere le persone in modo diverso, chi si lascia guidare dai segni sorprendenti dati da Cristo: i ricchi che si fanno poveri, i grandi che scelgono di divenire piccoli, gli uomini che si assumono i servizi umili imposti, fino ad allora, alle donne.

Anche l’accurata descrizione della sala è importante: è spaziosa perché è destinata ad accogliere molte persone, è situata in alto, come il monte in cima al quale risuonava la parola del Signore (Es 24,1-4), ed è arredata con divani, perché chiunque entra, anche se povero, misero o schiavo, acquista la libertà. Questi particolari alludono, in modo evidente, alla santa Cena celebrata nelle comunità cristiane.

Calata la sera i Dodici si ritrovano con Gesù per mangiare l’agnello pasquale. Pensano di celebrare la liberazione dall’Egitto e l’alleanza del Sinai, divengono invece testimoni della nuova alleanza annunciata dai profeti e ricevono come alimento il vero Agnello.

Alla seconda parte (vv. 22-26) ci accostiamo con trepidazione perché si tratta del testo liturgico usato nelle prime comunità cristiane per la celebrazione dell’eucaristia, testo composto nei primi anni di vita della chiesa e conservatoci da Marco, autore del primo vangelo.

Nel racconto non c’è alcuna allusione alla pasqua giudaica. I Dodici che hanno preparato l’agnello vedono la cena pasquale ebraica trasformarsi nella cena di Gesù, nel banchetto eucaristico.

“Mentre mangiavano, egli prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (v. 22). Fin qui nulla di nuovo rispetto al rito tradizionale. Come capotavola, Gesù ha fatto precedere la distribuzione del pane dalla preghiera: “Sii lodato, Signore, nostro Dio, re del mondo, che fai scaturire il pane dalla terra”.

Inconsueti sono invece l’invito rivolto ai discepoli: “Prendete e mangiate” e, soprattutto, il valore attribuito al pane: “Questo è il mio corpo”, cioè, “Questo sono io”.

I discepoli sono in grado di capire il significato del gesto e delle parole. Il Maestro ha fatto di tutta la sua vita un dono, è divenuto pane spezzato per l’uomo, ora vuole che i suoi discepoli condividano la sua scelta, entrino in comunione, divengano una persona sola con lui, così saranno partecipi della sua stessa vita.

Ora è chiaro, anche per noi, cosa significa accostarsi all’eucaristia: non si tratta di un incontro devozionale con Gesù, ma della decisione di essere, come lui, in ogni momento, pane spezzato a disposizione dei fratelli.

Al termine della cena, Gesù beve il calice di vino.

Il suo gesto è carico di simbolismo perché è l’ultima coppa, quella del commiato dall’antica alleanza, infatti dichiara: “Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò, nuovo, nel regno di Dio” (v. 25).

A differenza del Battista, Gesù mangiava, beveva (Mt 11,18-19) e accettava inviti a cena. A un gruppo di farisei e di seguaci del Battista, che gli avevano chiesto la ragione per cui non digiunava, aveva risposto: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare. Ma verranno giorni in cui sarà tolto lo sposo e allora digiuneranno” (Mc 2,19-20). Prevedeva, per la comunità dei suoi discepoli, un tempo di lutto, di mestizia, di astensione dalle bevande inebrianti. Il messaggio è chiaro: ovunque è assente lui, lo sposo, manca il vino, non c’è la gioia della festa. I segni di trionfo del male e della morte sono presenti nel mondo e questo rattrista i discepoli, ma il “banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6) avrà luogo e Gesù sarà presente alla festa e offrirà a tutti il suo vino: “Lo berrò (con voi), nuovo, nel regno di Dio”.

Il calice è quello del suo sangue, “il sangue dell’alleanza, versato per tutti”.

L’alleanza stipulata al Sinai non aveva raggiunto l’obiettivo di mantenere il popolo in comunione con il Signore: era stata sancita con il sangue che, essendo di animali, non possedeva alcuna forza vivificante. L’alleanza di Gesù è celebrata con sangue, il suo, in cui è presente la vita divina, offerta a chiunque la voglia accogliere.

Il sangue della nuova alleanza è versato per molti, che significa per tutti.

L’eucaristia non è stata istituita per i singoli, per permettere a ognuno di incontrare personalmente Cristo, per favorire il fervore individuale o qualche forma di isolazionismo spirituale. L’eucaristia è l’alimento della comunità, è pane spezzato e condiviso fra fratelli (non meno di due!), perché è la comunità il segno dell’umanità nuova, nata dalla resurrezione di Cristo.

La porta della grande sala, che si trova in alto, è sempre spalancata, perché tutti possano entrare. Il banchetto del regno di Dio, annunciato dai profeti, è preparato “per tutti i popoli” (Is 25,6), tutti devono essere accolti, nessuno escluso. Per Dio non ci sono uomini puri e uomini impuri, gente degna e gente indegna; di fronte all’eucaristia tutti sono sullo stesso piano, tutti sono peccatori, indegni, ma invitati a entrare in comunione con Cristo.

Il pane che è Cristo e il calice del suo sangue creano una comunità di “consanguinei” con Cristo e tra loro, così da costituire il popolo nuovo che ha come unica legge il servizio ai fratelli fino a donare in “alimento” la propria vita, per saziare ogni forma di fame dell’uomo.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News