Corpus Domini
Dt 8,2-3.14-16/ 1Cor 10,16-17/ Gv 6,51-59
Corpo e sangue
Una domenica per riflettere su chi è Dio.
Una domenica per riflettere su cosa facciamo ogni domenica.
Abbiamo bisogno di molto Spirito Santo per capire, per non banalizzare, per lasciarci convertire. Molto.
Perché il cuore della presenza di Cristo, quella doppia mensa della Parola e dell’eucarestia, l’incontro gioioso col risorto che faceva dire ai primi martiri di Abitene: non possiamo non celebrare il giorno del Signore, l’inizio della settimana, il pane del cammino, la cena del Signore ripetuta con fedeltà in obbedienza dai primi secoli, oggi è diventata, quando va bene, stanca abitudine, reiterata cerimonia, perdendo il senso dell’incontro con Dio, la consapevolezza dell’immensa fortuna che abbiamo nell’avere in mezzo a noi la presenza stessa del Signore che si fa pane spezzato, che si dona.
Cosa ci è successo? Perché è così difficile partecipare ad una celebrazione in cui si respiri la fede? Perché i nostri preti, invece di parlare della Parola, ci inondano di inutili parole e di astratti concetti teologici, o giocano a fare gli intrattenitori simpaticoni? Perché le persone che abbiamo intorno, troppo spesso, sono solo degli anonimi spettatori con i quali non abbiamo nulla da spartire?
Oggi è giorno per tornare all’essenziale, per ridire la fede della Chiesa: noi crediamo nella presenza di Cristo in mezzo alla sua comunità, nel segno efficace dell’eucarestia, nella Parola che riecheggia nei nostri cuori.
Un altro cibo
Un altro cibo è stato dato al popolo in fuga dall’Egitto. Un cibo che non aveva più nulla a che vedere con le cipolle degli egiziani. Un cibo inatteso e misterioso che il popolo riconosce come donato direttamente da Dio.
Abbiamo bisogno di nutrirci. Di cibo, ovvio, ma anche di affetto, di luce, di senso, di felicità.
E questo cibo manca: quante persone muoiono per inedia spirituale! Si spengono interiormente!
Manca il cibo che ci permette di camminare, di capire il grande mistero che resta l’esistenza di ognuno di noi!
È Dio che ci dona il pane del cammino verso la pienezza, verso l’eternità, verso la luce.
È Dio che si fa pane.
Un pane capace di renderci uniti.
Paolo a Corinto
È una comunità vivace, quella di Corinto, ma anche molto rissosa.
Persone di carattere diverso, di condizione sociale diversa faticano, dopo avere incontrato il Signore, a trovare sufficienti ragioni per costruire comunione. Proprio come accade oggi, quando la Chiesa italiana, troppo spesso, da l’impressione di un’appartenenza esteriore, di una crescente rissosità (politica, anzitutto), di una contrapposizione fra esperienze diverse, fra entusiasti e prudenti, fra conservatori ed innovatori.
Fatevi un giro su Internet o partecipate a un pranzo fra preti per accorgervi, purtroppo, che anche fra cristiani si alzano i toni, si assegnano patentini di ortodossia, si difendono papi o Concili, riti o leader carismatici.
E Paolo ha una felice intuizione: se ci frammentiamo così tanto, prendiamo il frammento che ci unisce.
Il pane spezzato riporta all’unità, all’essenziale, al centro.
Siamo cristiani perché Cristo ci ha chiamato, ci ha scelto. La Chiesa non è il club dei bravi ragazzi che pregano Dio, ma la comunità dei diversi radunati nell’unico.
L’eucarestia, allora, diventa il catalizzatore dell’unità.
Corpo e sangue
Nell’impegnativo discorso fatto da Gesù dopo la moltiplicazione dei pani in Giovanni, Gesù parla esplicitamente della sua carne da mangiare e del suo sangue da bere. Discorso scandaloso, incomprensibile, che pure preannuncia il gesto che, da lì a qualche tempo, compirà come ultimo dono fatto alla comunità.
In Israele la carne è segno della debolezza e della fragilità umana: non dobbiamo scandalizzarci per la povertà delle nostre comunità, per la pochezza del vangelo così come viene vissuto dai cristiani. Il Verbo si fa carne, si consegna alle mani di un povero prete.
In Israele il sangue porta la vita, è impensabile cibarsi di animali soffocati nel proprio sangue. Gesù chiede ai discepoli di condividere la sua stessa vita.
Ecco cos’è l’eucarestia.
Non è un problema di lingua o di rito, ma di fede.
Certo: sarebbe cento volte meglio se le nostre assemblee fossero più accoglienti, cantassero canti più belli e intonati, e se le nostre chiese fossero davvero luoghi ospitali che invitano ad alzare lo sguardo.
Ma è inutile illudersi: quello che ancora manca alle nostre liturgie è la certezza che il Signore si rende presente.
Manca la fede.