Commento al Vangelo di Rito Romano
Gv 15, 1-8
Quello che ci viene proposto in questa domenica è un pezzo del lungo discorso d’addio che Gesù lascia ai discepoli come una sorta di testamento spirituale.
Vengono utilizzate come sempre espressioni semplici e immediate.
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IO SONO LA VERA VITE E IL PADRE MIO E’ IL VIGNAIOLO
La vigna nell’Antico Testamento rappresenta il popolo di Israele e molte icone mettono in evidenza il rapporto stretto tra il vignaiolo e la vigna stessa non sempre capace di portare frutti.
Nel brano odierno Gesù stesso si identifica con la vite è il Maestro che si identifica con la pianta stessa.
L’espressione IO SONO è utilizzata da Dio nel roveto ardente utilizzando questa espressione Gesù si identifica con Dio.
VOI SIETE I TRALCI
Identificandosi con la vita il Signore indica i credenti, ovvero i discepoli come i tralci.
OGNI TRALCIO CHE NON PORTA FRUTTO
Attenzione non è garanzia il portare frutto. Ma cosa si intende per frutto? Potremmo pensare le cose che si fanno. No, c’è qualcosa di più profondo in questa espressione ovvero la dobbiamo considerare come la vita di Dio che permea la nostra totalmente e tutto deve operare in noi.
RIMANETE IN ME significa il vero e proprio dimorare nel Signore abitando la sua Parola perché questa possa permanere in noi.
La potatura la fa il Padre non siamo noi a procedere a questo tipo di operazione.
A noi invece è chiesto solo di rimanere nel suo amore per essere bene innestati.
Giovanni l’apostolo, nel brano della seconda lettura, ci chiede una maggiore profondità e non un amore fatto di semplici parole, ma che si deve concretizzare in fatti.
Questa concretizzazione ci viene offerta nel Libro degli Atti degli Apostoli.
La comunità cristiana fredda e impaurita nell’accogliere Saulo il persecutore ora si trova di fronte alla scelta se accoglierlo o meno.
Siamo chiamati ancora una volta a rendere visibile i frutti di una comunità nell’accoglienza.
Quante volte l’esperienza che la Comunità sta vivendo con Paolo la viviamo nei confronti dei fratelli che si accostano per la prima volta nelle nostre Comunità dopo cammini lontani da Dio e li accogliamo con freddezza e li mettiamo ai margini limitandosi a giudicare la loro storia.
L’amore di Dio e l’amore del prossimo costituiscono il centro della nostra fede.
Ogni chiusura diventa scandalo nella comunità e rompe la comunione.
Sulla capacità di accogliere si misura il nostro rimanere innestati nella vigna fuori da questo viviamo una fede solo di etichetta, ma non nella dimensione dell’unità e della comunione.
Commento al Vangelo di Rito Ambrosiano
Giovanni 17, 1b-11
Spezzare il brano evangelico, di questa domenica, non è sicuramente molto semplice. Proveniamo da una mentalità diffusa in cui si afferma diffusamente: debbo dire le preghiere.
L’idea è che a Dio ci si rivolge con formule precise fuori dalle quali non veniamo ascoltati.
L’originalità della preghiera stenta a decollare.
Non voglio dire che non bisogna utilizzare formule che la tradizione ci ha consegnato.
Mi piace quello che il Papa, nell’udienza del mercoledì 21 aprile ha affermato:
Tutti dovremmo avere l’umiltà di certi anziani che, in chiesa, forse perché ormai il loro udito non è più fine, recitano a mezza voce le preghiere che hanno imparato da bambini, riempiendo la navata di bisbigli. Quella preghiera non disturba il silenzio, ma testimonia la fedeltà al dovere dell’orazione, praticata per tutta una vita, senza venire mai meno. Questi oranti dalla preghiera umile sono spesso i grandi intercessori delle parrocchie: sono le querce che di anno in anno allargano le fronde, per offrire ombra al maggior numero di persone. Solo Dio sa quando e quanto il loro cuore fosse unito a quelle preghiere recitate: sicuramente anche queste persone hanno dovuto affrontare notti e momenti di vuoto. Però alla preghiera vocale si può restare sempre fedeli. È come un ancora: aggrapparsi alla corda per restare lì, fedeli, accada quel che accada.
Gesù in questi versetti ci chiede, tuttavia, di fare un salto ovvero quello di una preghiera costruita anche da noi nella nostra semplicità.
Il Maestro non ci consegna parole ci affida uno stile.
Prima di tutto ci chiede intimità. Con Dio cresciamo in una relazione intima.
Il Signore dice il Vangelo eleva gli occhi al cielo. La preghiera è incrocio di sguardi.
Il curato d’Ars colpito da un anziano che passava tempo in Chiesa in silenzio si avvicina e riceve una lezione importante: “Io guardo Lui e Lui guarda me”.
C’è di più in questi versetti che impariamo.
Per gli uomini del tempo sembra quasi che Gesù oggi ci insegni a bestemmiare. Sì, perché chiamare Dio Padre per il pio israelita era impensabile.
Per i pagani che credevano in tante divinità era impossibile creare un’amicizia con Dio.
Il salmista avverte guardate che vi rivolgete a sculture che hanno occhi, mani, narici e orecchie, ma non vedono, non palpano, non odorano e non odono.
E’ duro ancora oggi, 2000 anni dopo, riuscire a crescere nella consapevolezza che Dio non è distante, ma molto più vicino di quanto pensiamo e vuole che noi ne percepiamo la sua vicinanza.
Ci lamentiamo come preti perché non vediamo una risposta generosa della nostra gente alle proposte religiose forse dovremmo chiederci se molto spesso non siamo riusciti a fare percepire un Dio che si vuole fare intimo con ciascuno di noi.
Mi sto proprio interpellando su questo di questi tempi in cui iniziamo a intravvedere una via d’uscita dal lungo periodo che abbiamo attraversato e occorre ripartire sperando di non ripercorrere le stesse strade di sempre che hanno messo in evidenza anche alcune criticità e cercare di percorrere strade che, invece, siano capaci di farci percepire un Dio molto vicino.
Lo stile che ci consegna Gesù è l’abbandono.
Il Maestro si affida alla vigilia di quello che sarà la sua croce al Padre e lo fa elevando proprio a Lui una preghiera che sorge dal cuore.
Lo stile dell’abbandono che scaturisce da un cuore che è strettamente unito ed è quello di un figlio che compie un passo decisivo per Amore.
Intimità da un lato e abbandono dall’altro non fanno venire meno la dimensione della comunione.
La preghiera sale affidando tutti nessuno escluso. Gesù da lì a poco verrà tradito da tutti, ma Egli non esclude nessuno e mette tutti nelle mani del Padre perché siano una cosa sola, “come io e te siamo una sola cosa”.
La realtà comunionale non diventa qualcosa di umano, ma trova fondamento in Dio stesso.
Il cristiano è chiamato a rendere visibile questa forte unione perché il mondo creda occorre trovare questo aspetto della comunione.
Quando i cristiani si dividono fanno scandalo. Mi impressiona sempre vedere le scene di guerriglia nei posti santi di Gerusalemme tra le diverse confessioni cristiane.
Penso ai martiri beatificati dal Papa in Romania, greco cattolici, uccisi sotto il regime comunista con l’alleanza degli ortodossi.
Quando i cristiani si dividono il demonio gioca a scacchi sulle nostre divisioni.
Intimità, abbandono e comunione abitino sempre la nostra preghiera perché possa salire gradita al Padre.