Due grandi virtù s’intrecciano nella liturgia della Parola di questa domenica: la credenza in Dio, quindi la fede, e l’amore: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato…; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede».
A tale riguardo, possiamo dire che la conoscenza della fede e dell’amore vanno molto aldilà delle conoscenze umane, pertanto non è pensabile esigere di restringerle nei limiti dell’esperienza sensibile, dei pensieri umani; serve dilatare la mente e spalancare il cuore, riconoscere di poter arrivare alla conoscenza di Dio unicamente aprendosi alla sua Grazia.
Il grande passaggio dalla non fede alla fede, dall’essere non credente all’essere credente, impone la volontà e la inevitabile collaborazione dell’essere umano: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». In queste parole, notiamo che la fede di cui ci parla Gesù è la fede in Lui, ed ha per oggetto la sua Persona vivente, il che esige un’adesione piena al suo essere Figlio di Dio e, mediante Lui, al Padre.
Ecco il «credente» nel senso storico della parola: l’amato, il beato, il santo, il cristiano fedele.
Allora, un primo grande invito sta proprio in questo: si tratta di elevare un inno alla misericordia del Risorto che ricompare alle Sue apostole e ai Suoi apostoli con il Suo perdono, con la bontà di un Padre che ci ama da sempre, anche quando noi non ne siamo all’altezza e ci comportiamo come l’apostolo Tommaso, esitando a credere in Lui. Per questo Gesù dice anche a noi: «…beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Quando, l’apostolo Giovanni, nella sua prima Lettera, dichiara che, se amiamo Dio, osserviamo i suoi Comandamenti; indica proprio questo: le leggi di Dio sono ispirate alla mitezza. Se pensiamo come Lui, amiamo come Lui, non respingiamo le sue leggi, e queste diventano anche le nostre leggi, proprio perché decidiamo di rimanere in sintonia con l’amore di Dio, di accettare la sua luce, pur con tutti i nostri limiti, i nostri peccati, i nostri cinismi.
Dunque, avere fede è proclamare con tutta la mente e con tutto il cuore: «Mio Signore e mio Dio!», proprio perché l’argomento che anteponiamo al centro della nostra fede non è “io vedo, io credo”, bensì “io non ho visto e credo ugualmente”. Questa confessione di fede è la più alta e piena in tutti i Vangeli canonici: Gesù è il Signore, Gesù è Dio; chi vede Gesù, vede il Padre; Gesù è il Vivente per sempre ed è anche l’esegesi del Padre che nessuno ha mai visto né può vedere.
Tante cose noi crediamo basandoci sulla fiducia della testimonianza, come ci viene riportato dall’apostolo Giovanni: «Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Infine, ci viene fatto un secondo invito, altrettanto importante: il Signore è risorto per avere delle creature umane che siano come Lui: buone, aperte, evangeliche, generose, misericordiose; pertanto, ci chiede di fare un passo in più verso di Lui, cioè di parlargli come parleremmo a qualcuno da cui ci sappiamo amati fino a rivelargli interamente i nostri sentimenti con tutta la libertà della tenerezza e della fiducia.
Questo e altro il Signore attende da noi: rinnovare la nostra fede che vince il mondo; come la prima Comunità apostolica che viveva intensamente la propria fede nel Risorto, e dava testimonianza di essa davanti ad una società pagana e gnostica; così oggi sta a noi dare testimonianza di quella stessa fede. Tocca a noi trasmettere alle future generazioni la purezza della dottrina cristiana e la rettitudine delle abitudini cristiane: «Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo».