DOMENICA «dell’incontro con i greci»
Ci pare non sia inutile ricordare che il significato delle letture odierne va visto in relazione con la Pasqua. In fondo, il tema di queste Domeniche si ripete con varie sfumature, per permetterci di apprezzare giustamente l’instancabile amore, che sospinge Dio alla ricerca continua dell’uomo. La Divina liturgia di oggi non è un termine, un punto d’arrivo, non è un rimanere in beata contemplazione, ma piuttosto un inizio, un punto di partenza, l’inizio di un impegno a vivere quotidianamente l’amicizia con Dio.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 42,1-2
Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa
contro gente senza pietà;
salvami dall’uomo ingiusto e malvagio,
perché tu sei il mio Dio e la mia difesa.
Nel Sal 42,l-2a, SI l’orante esprime il suo desiderio di Dio, e si sottopone volentieri al suo Giudizio misericordioso (v. 1a; 7,9; 21,1; 1Sam 24,16), poiché sa che solo dal Signore può ricevere l’ascolto esaudiente. Non dai suoi nemici, che stando lontano dalla santità divina, nelle loro opere malefiche possono solo perpetrare iniquità e dolo mortali contro il pio Orante (v. 1ab). L’appello al Signore è motivato. In tutto questo, trattandosi di salvezza, di scampo dai pericoli mortali prodotti dagli uomini, di sottoporsi al divino Giudizio salvifico, l’orante sa che per lui esiste la sola via che lo porti alla vita, il «Dio suo», il Dio dell’alleanza fedele che interviene sempre in favore dell’alleato minore. Egli è la «Forza sua», l’irresistibile Potenza del Signore Unico, che agisce sempre con Bontà (v. 2a; 30,4). Questa è la premessa per la resurrezione del fedele.
Canto all’Evangelo Gv 12,26
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Se uno mi vuole servire, mi segua, dice il Signore,
e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
È l’invito del Signore alla sua diaconia, il servizio prestato a Lui dovunque Egli vada e per Lui ai fratelli dovunque si stia. Questa diaconia tuttavia comincia con l’ascolto della Parola sua, «oggi qui», ed è motivata solo dalla Parola divina. La grande settimana è ormai alle porte e già noi stiamo pensando già al Gesù in croce; due delle letture di oggi (la seconda e la pagina dell’evangelo) ci presentano tuttavia un punto di vista inedito: Cristo prima della croce: ossia, che cosa ha provato pensando alla propria passione. È qualcosa che ci interessa da vicino; infatti tutti noi sperimentiamo che il pensiero della sofferenza (quando questa è soltanto annunciata o immaginata) è qualcosa di terribile.
La lettera agli Ebrei ci presenta un quadro d’impressionante drammaticità: Gesù piange e rabbrividisce nella prospettiva della morte. Prova angoscia. Gesù non affronta la prova come un eroe impavido; è un figlio obbediente, ma che rifiuta la parte dell’eroe che sovente noi gli attribuiamo. L’eroe si colloca a una distanza irraggiungibile. Lui, invece, vuole manifestarsi come fratello vicino a noi; uno che prova i nostri stessi terrori, passa attraverso la nostra stessa paura. È Lui stesso che si strappa di dosso l’armatura, l’immaginetta devota, e appare debole, fragile, indifeso, smarrito. Ma c’è pure un aspetto pedagogico nella sofferenza: il Figlio, infatti, «imparò l’obbedienza dalle cose che patì». Quella croce è un’educazione dolorosa, eppure necessaria, insostituibile. L’esaudimento da parte del Padre non è consistito nel dispensare Gesù dalla prova terrificante, ma nella trasformazione della sofferenza in cammino di salvezza. Nel testo greco c’è l’assonanza singolare tra due verbi che non è possibile riprodurre nella traduzione italiana: pathéin/mathéin. Ossia, soffrendo si impara. Il dolore trasforma l’uomo ed ecco il vero esaudimento della preghiera. Grazie a Cristo, l’obbedienza, la docilità totale verso Dio, diventa anche amore fraterno per gli uomini. Il dolore accettato per amore diventa così sacramento di fraternità, scuola di umanità.
Dopo l’ingresso trionfale del Messia nella città di Davide, il 4° evangelista riporta un brano drammatico, composto di diverse scene, nel quale è proclamata l’imminente glorificazione di Gesù con la sua esaltazione sul trono della croce. I sinottici all’entrata del Cristo in Gerusalemme, fanno seguire la purificazione del tempio (cf. Mc 11,15ss e par.). Giovanni, che ha già riportato questo evento in occasione del primo viaggio del Maestro nella città santa (cf. III Dom. di Quaresima B), pone come epilogo della rivelazione del Verbo incarnato davanti al mondo, la pericope nella quale è preannunziata l’inaugurazione dell’«ora» di Gesù. Quindi il brano di Giovanni che sarà proclamato nella liturgia eucaristica di domenica può essere considerato realmente come il vertice della sezione conclusiva del ministero pubblico di Gesù[1].
Giovanni non crea dal nulla questa composizione altamente drammatica, non inventa nulla con la sua fervida fantasia; egli trasmette delle notizie tradizionali o dei ricordi personali che ha rielaborato. Infatti, molti passi della pericope in esame, si trovano sotto forma simile negli altri evangeli. Si veda l’espressione sulla venuta dell’«ora» di Gesù, per mezzo del quale egli sarebbe stato glorificato con la passione e la morte (Gv 12,23), che ricorre anche in Mc 14,35. In Gv 12,27s Gesù manifesta la sua angoscia per il sopraggiungere della sua ora, per cui prega il Padre non di salvarlo, ma di glorificare il suo nome. Ora, nei passi dei sinottici che descrivono l’agonia del Getsemani, troviamo tematiche analoghe, in quanto si parla del profondo turbamento dell’anima di Gesù fino alla morte ed è riportata la sua preghiera al Padre per ottenere la liberazione da quest’ora di angoscia (Mc 14,34ss e par.).
II confronto sinottico dei testi, oltre a mettere in risalto le numerose corrispondenze insinua che in Gv 12,27s abbiamo l’anticipazione dell’agonia di Gesù. Per i sinottici questo evento si è verificato nel Getsemani, invece per Giovanni alla fine della rivelazione pubblica del Cristo. In Eb 5,7ss (II lett.) l’autore tratta temi simili, in quanto parla della preghiera del Figlio al Padre per essere salvato dalla morte e della sua obbedienza durante la passione.
Per quanto concerne la sintetica parabola del chicco di grano (Gv 12,24), che deve cadere in terra, essere sepolto e marcire, per portare frutto, negli evangeli sinottici troviamo una lontana eco in Mc 4,30-32. La corrispondenza dei testi mostra che pur riecheggiando la tematica della parabola (gli elementi ci sono tutti: il chicco, la caduto in terra, il suo fruttificare), tuttavia è diversa la prospettiva.
Giovanni utilizza l’immagine del chicco di grano per mettere in risalto la necessità della morte del Figlio dell’uomo, mentre i sinottici vogliono illustrare la crescita del regno Di Dio;
Anche Gv 12,26.28b-29 contiene espressioni riscontrabili presso i sinottici:
- in Mc 10,45, come in Gv 12,26, si parla del servire (« diakonéin») e del servo («diàconos»);
- mentre in Mc 8,34 e in Gv 12,26 troviamo l’identica esortazione di Gesù al suo discepolo.
Ecco le locuzioni simili in parallelo: :
Mc 8,34 |
Gv 12,26 |
Se uno vuol venire dietro di me |
Se uno mi vuol servire, |
mi segua («akoloutheítō moi») |
mi segua («emoì akoloutheítō») |
Il passo di Gv 12,28 trova una lontana eco nelle scene sinottiche del battesimo e della trasfigurazione di Gesù. Le parole di Gesù concernenti la sconfitta o la cacciata del diavolo, il principe di questo mondo (Gv 12,31), si trovano in forma analoga nella scena del terzo evangelo che descrive il ritorno dei 72 discepoli dalla missione (Lc 10,18).
Il passo giovanneo della pericope in esame che riecheggia più da vicino frasi dei sinottici è il detto concernente l’amore o l’odio per la propria anima. Il confronto fra Gv 12,25 e Mc 8,35 lo mostra con chiarezza. Questo confronto dei testi ha messo in risalto come Giovanni abbia utilizzato del materiale sinottico per comporre la nostra pericope; egli non ha inventato, ma ha solo rielaborato e ampliato elementi tradizionali, creando una pagina di alto valore teologico e letterario.
Per quanto riguarda le più vistose particolarità giovannee, ci limitiamo ad elencare le seguenti:
- la scena iniziale che rappresenta l’incontro dei greci con i due apostoli Filippo e Andrea per vedere Gesù (vv. 20-22) è esclusiva di Giovanni;
- il dialogo tra Gesù e la folla che aveva udito la voce celeste (vv. 29-3la), non sembra avere paralleli negli evangeli sinottici;
- il dialogo finale tra Gesù e il popolo, incentrato nell’esaltazione del Figlio dell’uomo e nella fede alla luce (vv. 32-36), pare caratteristico di Giovanni; gli altri evangelisti non riportano scene del genere.
Esaminiamo il brano
20 «c’erano alcuni greci»: non sono giudei ellenisti, ma proprio greci, probabilmente dei proseliti, dato che vengono a Gerusalemme in occasione della Pasqua. Costoro non possono essere ebrei della diaspora, anche perché in Gv 7,35 il medesimo sostantivo «éllén» indica i pagani. È un segno della universalità della salvezza, un fondamento storico della missione ai pagani nella vita di Gesù (Cf. 10,16) ed un anticipo dell’attrazione di tutti al Figlio dell’uomo (Cf. 12,32).
21-22 «Andrea e Filippo»: Non esiste una ragione chiara e inconfutabile, per cui questi greci si siano rivolti proprio a Filippo e non a un altro apostolo. Forse il suo nome greco o la sua origine da una regione della Palestina, aperta ai pagani e perciò chiamata «Galilea delle genti» (era di Betsaida, come Andrea, Gv 1,44; Cf. anche Is 8,23 e Mt 4,15), può aver indotto i greci a servirsi della mediazione di Filippo (insieme ad Andrea forse erano quelli che conoscevano meglio la lingua greca). È da osservare come questo discepolo più di una volta funge da mediatore (cf. Gv 1,45; 6,5); sembra quindi che Giovanni gli abbia riservato questo ruolo specifico. Filippo però non agisce da solo, ma va ad informare della faccenda l’amico Andrea, un altro apostolo dal nome greco. Questi due discepoli si trovano sulla scena insieme anche nel brano che descrive la moltiplicazione dei pani (Gv 6,5-8).
«vogliamo vedere Gesù»: vogliono cioè parlare con Gesù. Se non la fama di lui certamente non era passata loro inosservata, l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, che tanto subbuglio aveva creato nella popolazione. Una vera e propria risposta non c’è né si può richiamare al dialogo con Nicodemo che finisce con un monologo come ad un esempio analogo. Qui in realtà non viene registrato nessun dialogo, ma solo il monologo di Gesù. La risposta si deve cercare quindi a livello della teologia dell’evangelista: il loro desiderio di vedere Gesù è considerato un segno dell’arrivo dell’ora dell’innalzamento della croce ed alla gloria, in cui effettivamente Gesù attrarrà tutti a sé, giudei e pagani.
23 – «È venuta l’ora»: finora avevamo sentito ripetutamente che l’ora, segnata dal Padre, non era ancora venuta (cf. 2,4; 7,30; 8,28). Ora è venuta, ed è l’ora della glorificazione del Figlio dell’uomo.
24 in questo versetto è riportata una breve parabola o similitudine sul grano di frumento, riferita all’ora di Gesù. L’introduzione è quella solenne propria di Giovanni («In verità, in verità vi dico» cf. Gv 1,51; 5,19.24 ecc.), quando vuole introdurre detti del Maestro molto importanti. È una parabola che certamente ha una base storica; infatti il tema del grano si trova diffusamente anche nei sinottici. È anche una predizione della morte imminente, che trova il suo corrispondente nella conclusione del brano, i vv. 32-33.
25 Questo e il detto seguente riguardano invece i discepoli. Quattro verbi vengono usati in forma dialettica: all’amare corrisponde il perdere, all’odiare il conservare per la vita eterna.
«Amare-odiare» è una tipica contrapposizione semitica (cf. Lc 14,26). Il discepolo di Gesù è chiamato a seguire il maestro sulla via della morte di croce; anch’egli deve accettare di morire per poter conservare la sua vita autentica, quella escatologica, «per la vita eterna».
26 È ancora un detto sul discepolato, coniugato non più sul tema del «seguire Gesù», ma su quello del «servire». Il servizio reso a Gesù va senz’altro considerato come attività missionaria; è l’annuncio della Parola con la testimonianza (martyrium) della propria vita.
27-28 È il ricordo sinottico del Getsemani che abbiamo ricordato nella parte generale.
28b «Venne allora una voce dal cielo» non è la «bathqòl» (= figlia della voce, cioè l’eco della voce di Dio nella Scrittura) rabbinica, che considerava la Scrittura un’eco della parola di Dio, direttamente rivolta ai profeti. Qui si tratta di una vera e propria rivelazione diretta di Dio. «E l’ho glorificato e lo glorificherò» è usato il passato ed il futuro. Il passato si riferisce alla gloria che il Padre ha dato a Gesù mediante i segni (1,14; 2,11; ecc.) e mediante la stessa rivelazione. La futura glorificazione è quella che avverrà con la morte-risurrezione-dono dello Spirito, in cui Gesù attrarrà tutti a sé.
29 «Allora la gente»: non sono più i greci, già dimenticati, né i giudei ostili, ma la folla anonima, la quale si divide, come di solito, di fronte alla rivelazione, dimostrando così di non comprendere.
Il tuono nell’AT (cf. 1 Sam 12,17-18; Sal 29,3-9) era considerato «voce di Dio»(cf. Esodo, Mose sul monte Sinai). Un angelo: qualche esegeta prospetta la possibilità di una allusione all’angelo consolatore di Lc 22,43.
30 Gesù rettifica l’incomprensione della folla, interpretando la voce come un segno: la determinazione del tempo decisivo per il giudizio e la salvezza.
31 «Mondo»: in questo versetto la parola ha senso negativo ed indica il complesso delle potenze mondane che sono contro Dio ed il suo inviato, «il principe di questo mondo» è colui con il quale Gesù si confronta (14,30); nel NT esistono anche altre denominazioni (vedi il diavolo: 6,70; 8,44; 13,2; il maligno: 1 Gv 2,13-14; 3,12; 5,13).
«sarà cacciato fuori»: nella tradizione sinottica, Gesù si presenta con poteri di esorcista, che caccia il demonio dall’uomo, liberandolo dalla sua potenza malefica. In tutte le occasioni è stato sempre utilizzato il verbo che qui viene usato da Giovanni (ekbállō). La cacciata del demonio è il segno dell’avvento del regno di Dio nel mondo con Gesù (cf. Mt 12,28-29 e parall.).
In Giovanni l’affermazione, slegata dal contesto storico dei sinottici (Giovanni non parla affatto di un’attività esoteristica di Gesù) acquista un carattere più generale. La vittoria sul mondo e sul principe di questo mondo avverrà proprio con la morte-risurrezione-dono dello Spirito. L’uomo sa che in Cristo ha vinto e può vincere il potere del male, presente in modo così massiccio nel mondo.
32 L’«essere innalzato da terra»: significa l’innalzamento sulla croce, ma anche l’innalzamento alla gloria con il ritorno al Padre. Gesù, innalzato e glorificato, diventa centro di salvezza universale.
«attrarrò tutti»: altri leggono «attrarrò tutto» che suggerisce l’idea di una redenzione cosmica sorta sotto l’influsso di Col 1,16-17. Da preferirsi la scelta fatta nel nostro testo perché ha a suo favore una testimonianza esterna maggiore, ed è più coerente con la teologia giovannea.
33 È una nota redazionale, che interpreta il detto precedente come profezia enigmatica della morte di croce.
Piccola conclusione
Tra noi e Dio c’è una specie di processo continuo: noi accusiamo Dio di essere lontano, silenzioso, sordo, introvabile. Dio, a sua volta, nella rivelazione parla, chiama, stimola l’uomo, e non è ascoltato. Dice che è Padre, ma gli uomini non hanno che un’ambizione: quella di emanciparsi, di liberarsi, di fare a meno di lui.
Quando due persone cominciano a volersi bene, si raccontano tanti particolari della loro vita, si fanno confidenze, si rivelano l’una all’altra. Anche Dio è continuamente teso verso di noi, per rivelare se stesso, per farci le sue confidenze, che noi immancabilmente respingiamo, perché troppo indifferenti, troppo distratti. Egli si vuole manifestare, vuol farsi conoscere da tutti (cf. Evangelo): i «greci», cioè i pagani, che chiedono di «vedere» Gesù, non sono degli intrusi, anzi sono le primizie, l’anticipo della glorificazione di Gesù, il frutto della sua morte e risurrezione. Egli è venuto a offrire la sua salvezza non solo agli ebrei, ma a tutti gli uomini: cerca ciascuno di noi, ci chiede di fare un patto d’amicizia, un’alleanza perenne.
Tutta la storia dell’uomo ha, come spina dorsale, l’alleanza; è costruita attorno all’alleanza. Solo che Dio è fedele nel mantenere le promesse del patto, mentre l’uomo non mantiene mai le clausole. In tutta la storia sacra, Dio richiama continuamente l’uomo a rifare l’amicizia perduta; ma è costretto a ricomporre di continuo il suo progetto. Per questo sulla devastazione operata dal diluvio, Dio viene incontro all’uomo, riproponendogli la sua amicizia, come condizione per raggiungere la vita. In seguito, Dio s’impegna di nuovo con Abramo, promettendogli una terra nuova e la sua benedizione. Tale patto, viene suggellato secondo le antichissime cerimonie: Abramo immola e fa a pezzi le vittime, e le depone a terra. Tra le parti, passano le due persone contraenti, dicendo: «Sia di me come di questa vittima, se non mantengo le promesse». Per questo si aspergono col sangue delle vittime, poi siedono al banchetto sacrificale. Il patto è concluso. Successivamente Dio propone ancora la sua alleanza a un popolo appena uscito dalla schiavitù, tramite Mosè. Alle falde del Sinai, dopo aver ascoltato la lettura delle clausole dell’alleanza, il popolo risponde, impegnandosi a fare tutto quello che Dio comanda. Allora Mosè asperge col sangue delle vittime il popolo dicendo: «Questo è il sangue del patto, che il Signore ha concluso con voi». L’ultima cena si è svolta secondo questi modelli, solo che tutto è molto più spiritualizzato: il sangue dell’agnello del sacrificio si trova nel calice; il nuovo popolo di Dio non ne viene asperso, ma riceve il pane come alimento e il sangue come bevanda, entrando così in comunione con Dio. È l’eucarestia. È la nuova alleanza, che si realizza nel sangue del Figlio di Dio; nuova alleanza annunciata per la prima volta dal profeta Geremia.
È un’alleanza come tutte le altre, perché si trova in linea con le altre; ma soprattutto è qualche cosa di nuovo, dove il termine «nuovo» dice più la diversità, la frattura con le altre, che non la continuità. Infatti le altre erano preparazione, promessa; questa è la realtà definitiva: la «nuova ed eterna»; non ve ne saranno altre.
Abbiamo detto che la storia della salvezza ruota attorno all’alleanza, che però non viene mai conclusa direttamente fra Dio e il popolo, ma solo tramite uomini straordinari che fanno da mediatori: Noè, Abramo, Mosè, ecc. fino a Gesù che, secondo la classica profezia di Geremia, non è solo il mediatore ma l’alleanza; personificata. «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (non il sangue dell’alleanza); ciò vuol dire che il calice contiene Cristo stesso, in quanto personifica la nuova alleanza.
La Chiesa è una comunità che continua a portare all’uomo, in tutti i luoghi, in tutti i tempi, la salvezza preparata nell’antico testamento e compiuta da Gesù Cristo, e che sarà consumata alla fine del mondo, col suo glorioso ritorno. Ecco il piano di Dio: le alleanze particolari, provvisorie, e mescolate a promesse di posterità materiale (che accompagnano il cammino del popolo d’Israele) preparano e conducono a una nuova alleanza universale, spirituale e definitiva, stipulata nel sangue di Cristo redentore. Pertanto, noi non solo viviamo in piena storia sacra, ma siamo nel tempo del nuovo patto; un’alleanza che passa, si realizza, attraverso la sofferenza e la morte. Il grano che muore e porta frutti, è Gesù; ma è anche la Chiesa; è ogni cristiano. Naturalmente, anche per noi, dev’essere un «morire» come quello di Gesù, cioè segno dell’amore per Dio e per l’uomo; solo questo è un morire che fruttifica. Ma non è una contraddizione, parlare dell’amore di Dio, della sua amicizia, dell’alleanza con lui, e dire che si realizza nella sofferenza? No, perché l’alleanza, che è una relazione d’amore, trova la sua espressione più autentica, proprio nella reciproca donazione. La morte di Gesù sulla croce ci appare come l’espressione più alta di questa donazione di sé per Dio e per gli uomini. La morte, s’intende, non nel suo aspetto materiale, ma in quello oblativo, cioè come atto d’amore di Gesù; perché non ogni morte, è un sacrificio. L’evangelo, infatti, sottolinea che Gesù accetta e va incontro a quella che chiama «la sua ora»; il sacrificio della croce è un atto libero d’amore totale: per questo, dalla sua morte, nasce la vita. Tale legge pasquale non vale solo per Gesù, ma anche per la Chiesa e per chiunque voglia essere autentico cristiano. Il vero discepolo è colui che accetta la legge dell’amore, e la manifesta e la vive, donandosi fino in fondo, in una fedeltà costante nell’adempimento dei suoi compiti quotidiani, e disponendosi a percorrere la via che Gesù Cristo ha segnato col suo sangue.
II Colletta:
Ascolta, o Padre,
il grido del tuo Figlio che,
per stabilire la nuova ed eterna alleanza,
si è fatto obbediente fino alla morte di croce;
fa’ che nelle prove della vita
partecipiamo intimamente alla sua passione redentrice,
per avere la fecondità del seme che muore
ed essere accolti come tua messe nel regno dei cieli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] – I vv. 34-50, che non saranno proclamati, costituiscono l’epilogo di tutta la prima parte del 4° evangelo (Gv 1,19-12,36), in quanto contengono la riflessione sull’incredulità dei giudei e la sintesi poetica sulla fede, la rivelazione e la salvezza, i tre temi fondamentali della teologia giovannea.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano