Il dono del Figlio innalzato
La IV domenica di Quaresima, la domenica laetare, è connotata dalla gioia. Al credente viene richiesta la gioia: “Rallegrati”. L’imperativo dell’antifona di ingresso si rivolge dunque a noi chiedendoci di non assolutizzare le nostre emozioni e i nostri sentimenti, che magari non sono affatto di gioia o di letizia, ma di cercare di condurli all’obbedienza evangelica. La reazione che proviamo di fronte a questo imperativo esprime molto della nostra fede e anche della nostra non-fede. Ci viene chiesto di rallegrarci perché l’evento pasquale si è avvicinato, è sempre più prossimo, ma soprattutto perché l’annuncio evangelico è quello dell’amore di Dio incondizionato per l’umanità, per tutti e per ciascuno. Questi, sono eventi che suscitano gioia in noi o che ci lasciano indifferenti e non smuovono né mutano le emozioni e i sentimenti di tristezza o di rabbia o di angoscia che eventualmente abbiamo in noi? L’obbedienza cristiana è la via per far entrare in noi il sentire che fu in Cristo Gesù e così evangelizzare il cuore e la mente e tentare di vivere realmente la nostra vita come vita in Cristo. E soprattutto di non finire prigionieri di quelle emozioni e sentimenti che ci sembrano più esprimere noi stessi e la nostra libertà, mentre finiscono con l’essere ciò che ci domina e ci agisce.
Il vangelo chiede purificazione dello sguardo e ritrovamento della verità credendo al grande amore con cui Dio ha amato il mondo e al dono del suo Figlio per la salvezza e non per la condanna del mondo stesso. Ma per credere questo occorre percepire in maniera personalissima che si è i destinatari di quell’amore. Quel “mondo” che Dio ha tanto amato da dare il Figlio unigenito, va colto certamente come l’umanità intera, ma in esso ognuno di noi deve anche saper vedere se stesso. E deve mettere il proprio nome in quel mondo: raggiungesse ben il mondo intero, se quell’amore non raggiunge me, viene ridotto all’impotenza e non mi cambia né mi converte. Occorre dunque saper vedere se stessi, ma inseriti in un “mondo”, nell’umanità che è destinataria dell’amore di Dio, e di vedere se stessi in rapporto a Dio stesso e al suo amore. Dunque non più vedere se stessi come centro del mondo o della comunità ecclesiale, ma nel mondo e nella comunità. E sotto lo sguardo del Signore.
Il brano evangelico della liturgia odierna si innesta nel discorso di Gesù con Nicodemo, dialogo in cui Gesù sconcerta Nicodemo dicendogli la necessità di una rinascita dall’alto, cioè dallo Spirito santo effuso dall’alto. La reazione stupita di Nicodemo (“Come può accadere questo?”), trova da parte di Gesù una risposta che sconcerta noi: “Se non credete quando vi ho parlato di cose della terra, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?” (Gv 3,12). Stando al contesto le “cose terrestri” consistono proprio nella dinamica di rinascita spirituale che deve avvenire in vita, qui sulla terra, nell’umanità della persona che, grazie alla fede, si apre all’azione dello Spirito santo. Mentre le cose celesti sono il paradosso di un innalzamento che coincide con una condanna a morte, e di un supplizio, la crocifissione, che è esaltazione, glorificazione. Questa incredibilità (“come crederete se vi parlerò di cose del cielo?”) sembra eco delle parole del profeta in Isaia 53,1: “Chi crederà alla nostra rivelazione?” che fanno seguito all’annuncio che il “servo del Signore sarà innalzato” (Is 52,13, con il verbo greco ypsóo, usato anche da Giovanni nel nostro testo per indicare l’innalzamento del Figlio dell’uomo). Al cuore della fede cristiana vi è un incredibile. E l’incredibile è specificato subito dopo: l’innalzamento del Figlio dell’uomo è l’evento che realizza in pienezza, e adempie il dono che il Padre ha fatto all’umanità: il dono del Figlio. L’innalzamento, in verità, è
anche l’abbassamento; la salita, l’anabasi, è anche la katabasi, la discesa, la kenosi. Nel cristianesimo avviene una ri-modulazione della verticalità. Il brano evangelico parla della paradossale nascita dall’alto come vera iniziazione alla vita cristiana (cf. Gv 3,3), e il traduttore latino usa a volte altum o altitudo per rendere il greco báthos, profondo/profondità. La croce come innalzamento significa che si sale verso il punto più basso della società e della religiosità dell’epoca: la morte di croce è la morte turpe e infame dei maledetti da Dio e dei banditi dalla società. Ma soprattutto, dietro alla simbolica del salire e dello scendere (“nessuno mai è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo”: Gv 3,13) vi è l’evento del dono che esprime l’amore di Dio. Un amore che, essendo tale, non intende minimamente condannare, ma solo salvare, dare senso e pienezza. Un amore gratuito, incondizionato, ma che si può diffondere e può manifestare le sue energie in chi vi fa spazio accogliendolo in sé attraverso la fede.
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Cristo, come dono di Dio, è sacramento e narrazione dell’amore di Dio e, nell’itinerario da Dio all’uomo, l’amore del Padre (il Donatore) diviene l’amore del Figlio (il Dono che dona se stesso) e diviene amore nell’uomo (il donatario). Il dono che è Cristo, è asimmetrico, non cerca reciprocità: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi” (Gv 15,9); “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34): il movimento della donazione divina non diviene un circolo asfittico e chiuso nell’infernale bipolarità “io-tu, tu-io” sempre esposta al rischio della violenza e della sopraffazione, ma resta aperto a un terzo di cui tende a far fiorire la soggettività e a servire la vita. Questo dono è decentrante rispetto al Donatore e si risolve in vita del donatario. L’amore che tale dono narra non è totalitario e obbligante, non pretende gratitudine, ma rispetta la libertà e la vita dell’uomo. La salvezza, non la condanna, è il fine dell’invio del Figlio da parte del Padre (cf. Gv 3,17). Questa è l’intenzione paterna di Dio, il senso del suo amore che si esprime nel dono del Figlio. E questo agire divino è normante per la chiesa. Anch’essa è mandata tra gli uomini non per giudicarli, ma per essere segno di salvezza e per narrare loro l’unica cosa salvifica e necessaria: la misericordia di Dio. Di fronte a persone che spesso sentono la vita come condanna, la chiesa ha il compito di narrare la misericordia divina, di fare opera di liberazione, di dare senso, respiro e vivibilità.
Giovanni sottolinea che il dono del Figlio è volto a dare vita, non morte, agli uomini (cf. Gv 3,16). Cristo, in quanto dono per la vita degli uomini, ha vissuto la sua intera esistenza donando la propria vita, e così ha generato alla vita, ha trasmesso e suscitato vita. E tutta la sua vita terrena è stata questo dono da lui continuamente rinnovato agli uomini per la loro vita. E questo è culminato nella morte di croce, che Giovanni chiama “innalzamento” (3,14). Come Mosè, obbedendo al comando misericordioso di Dio, innalzò il serpente nel deserto perché chi lo guardava trovasse vita e guarigione, così l’innalzamento del Figlio dell’uomo è il compimento della misericordia divina per la salvezza dei credenti (cf. 3,14-15; Nm 21,4-9). Se nel serpente innalzato il credente era condotto a riconoscere il proprio peccato guardando in faccia il simulacro di chi lo aveva punito con i suoi morsi, nel Cristo innalzato il credente vede la misericordia di Dio che perdona i suoi peccati manifestando un amore unilaterale e universalmente salvifico.
Tuttavia la pro-esistenza di Cristo, la sua esistenza spesa per gli altri, la sua vita donata non ha evitato il rifiuto che gli è stato opposto. Se la salvezza è destinata a tutti, solo alcuni accedono alla fede e alla conoscenza del dono di Dio in Cristo. Tale dono cioè può essere misconosciuto e rigettato. Ma questo rifiuto non sopprime la qualità di dono che il Cristo è, e conferma che esso è a servizio della libertà del donatario. Qui si rivela che il dono di Dio – gratuito ma non neutrale – diviene appello alla fede. Non a caso la prima menzione dell’amore di Dio nel quarto vangelo (3,16) è accompagnata da cinque rimandi alla fede (o alla non-fede) dell’uomo (3,15.16.18). E la distinzione tra adesione e non adesione diviene discernimento tra luce e tenebre, tra opere fatte “in Dio” (3,21) e opere maligne (3,19: fatte nel Maligno). Questa distinzione non si situa sul piano morale, ma designa una presa di posizione di fronte all’inviato di Dio. E allora si comprende che l’unica opera essenziale secondo il quarto vangelo sia la fede. La querelle tra fede e opere è così risolta da Giovanni: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). In questo atto di fede c’è anche la guarigione del nostro sguardo, il nostro passaggio dalla cecità alla luce. Non è un caso se l’annata liturgica A conserva nella IV domenica di Quaresima il testo tradizionale della guarigione del cieco nato in Gv 9. Anche questo è un motivo di gioia: ritrovare la
vista, uscire dall’accecamento di chi non vede che sé stesso, di chi è accecato dalle proprie sofferenze, di chi è assorbito nel compito disperato e angoscioso di salvare se stesso a tutti i costi, e ritrovare la luce vedendo gli altri, il Signore di tutti, e se stesso insieme agli altri e davanti al Signore.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose