Questo brano è esemplare per la compresenza di due piani di lettura antitetici. Da un lato sono raccontate di Gesù parole e azioni fortemente liberatorie e destrutturanti, dall’altro i presenti, come spesso in Gv, le interpretano in modo da reincluderle nel loro orizzonte mentale di giudei osservanti, fraintendendole. In realtà tra i sinottici e il quarto evangelo è già passata tanta fervida riflessione della chiesa primitiva che si è interrogata e si è data risposte decisive sulla novità e sulla continuità dell’evento Gesù.
Così Giovanni nel disegno del suo vangelo può presentare sin dall’inizio una serie di sostituzioni. Già al suo apparire al Giordano Gesù viene salutato dal Battista come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, chiara sostituzione del Capro espiatorio nell’antico rito del giorno del Perdono. A Cana ha poi adombrata la sostituzione dell’Alleanza con una Nuova, vivificata dall’ebrezza del vino buono. Ma ora, salito al Tempio, Gesù depone due altre antiche istituzioni: il culto sacrificale prima e il Tempio stesso dopo. Ambedue rappresentano una forzatura umana al disegno originario del Dio d’Israele: “Io detesto, respingo le vostre feste solenni, anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per quarant’anni, o Israeliti?” (Am 6,21-25).1 E pure riguardo al Tempio il Signore aveva contestato David: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Infatti, non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme a tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d’Israele: Perché non mi avete edificato una casa di cedro?” (2 Sam7,5-7).
Nel recinto del tempio la festività pasquale conserva poco dell’originaria Pasqua ebraica, sobrio memoriale della liberazione dall’Egitto. L’impatto con l’animazione legata al solenne culto sacrificale, e alla sua varia mercificazione, è sconcertante. Allora Gesù compie un plateale gesto liberatorio. Con una sorta di frustino spinge fuori dal tempio, e quindi libera da morte sacrificale, pecore e buoi con i loro venditori, condannando in blocco il sistema cultuale. Rovescia i banchi dei cambiavalute, denunziando insieme il tributo al tempio e il cambio ufficiale delle monete pagane. Ma, in crescendo, rimprovera più decisamente i venditori di colombe: non rendete la casa del Padre mio casa di commercio2. Perché le colombe sono specialmente destinate (Lev 1,14-17; 12,8) ai sacrifici di riconciliazione con il Signore. Allora non è tanto la presenza dei venditori, in fondo funzionale alla possibilità stessa del sacrificio, che sdegna Gesù, quanto la stessa pretesa riconciliatrice della religione sacrificale. Quello è il commercio.
È dato riconosciuto che sin dalle origini la relazione con la divinità si sia assimilata a un contratto di scambio, a un do ut des, condizionamento, in ultima analisi, magico. Il sacrificio animale nasce in fondo dalla paura del divino, avvertito tremendum prima che fascinosum3, e dal senso di colpa della propria inadeguatezza davanti ad esso; così il timore di una ritorsione divina si esorcizza indirizzandola su un’altra vita che la propria, su un altro sangue che il proprio. Qui il credente giudeo, davanti un Dio dall’impronta fortemente retributiva e sacrale, ha sviluppato, per ragioni anche storiche, un’ansia estrema del peccato e, ad ogni passo sovrastato dal rischio di infrangere un qualche precetto o di contrarre impurità, si affida allora a un culto sacrificale, ossessivo4 e ripetitivo che lo rende schiavo.
Ma Gesù porta altro. Fa cose nuove. È venuto a liberare il cuore innanzi tutto dalla paura di Dio, perché il suo Dio non è un’immagine distorta. Il suo Dio non è vendicativo né è il Dio fragilmente sacro, separato, che teme l’impurità dell’uomo. È il Padre, che gli ha dato la vita e vuole sempre continuare a dargliela, se solo glielo si permetta, riconoscendone il volto di misericordia. Questa, già invocata dal profeta (Os 6,6) non ha prezzo e non si merita. Allora casa del Padre è il luogo della gratuità, non del commercio spirituale ma del perdono. Seconda liberazione, quella dalla paura del peccato: “davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). Perciò Gesù chiama il Tempio casa del Padre mio, lo desacralizza e lo riporta ad una dimensione relazionale. Nella casa del Padre si va col cuore colmo di fiducia, sicuri di trovare accoglienza, nutrimento per la propria fame, gioia per la propria vita e tenerezza. Quel Dio che esigeva la vita si rivela ora Padre, chiamato così dall’unico che può dirsi Figlio. Presso la sua casa ci si incontra fratelli tutti.
Ciò risulta inedito e causa fraintendimento. Prima i discepoli attribuiscono a una sua passione per il Tempio quel sacro fuoco, ricordando il Sal 69,10: Perché mi divora lo zelo per la tua casa. Invece non per il Tempio, ma per l’uomo e per il Regno Gesù si consuma. Poi, complice quel flagello di corde, che simbolicamente lo apparenta a un atteso Messia purificatore del Tempio, anche i dirigenti Giudei equivocano, chiedendogli un segno che tale lo accrediti. La risposta è un invito al capovolgimento delle aspettative, una sfida enigmatica, destrutturante. “Abbattete questo santuario e in tre giorni lo rialzerò”.
Non di riforma si tratta, allora, ma di totale sostituzione. Il Santuario biblico ha esaurito il suo compito. Il Prologo ha già proclamato che la Presenza divina abita un’altra Tenda, la carne di debolezza in cui si è accampata la Parola (Gv 1,14). Ora dimora in lui, nel santuario del suo corpo, in attesa di dimorare presso i suoi. Quando la frase enigmatica si compirà, allora se ne svelerà il senso: in lui ogni uomo sarà tempio dello Spirito. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16) e per questo non ci sarà più oppressione del povero, rovina dell’innocente che non verrà riscattata. Un terzo giorno capovolgerà le situazioni di morte e, nello spirito di Gesù, le aprirà alla vita. È già detto dai Profeti: “Venite, ritorniamo al Signore … Dopo due giorni ci ridarà la vita, il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua Presenza” (Os 6,1-2).
Questo riconoscimento avverrà dopo la Resurrezione, quando lo Spirito ermeneuta, allora donato, abiliterà i credenti all’interpretazione della Storia e della Scrittura. I discepoli, infatti, si ricordarono illuminando l’una con l’altra la parola scritta e la parola ascoltata, giungendo così alla piena fede nel Cristo, secondo le Scritture. L’unità delle Scritture è, da allora, per la chiesa delle origini, via maestra alla fede. Invece di chi crederà perché conquistato da segni Gesù non si fiderà (v 23-24).
Quando, alla sua morte, i discepoli hanno dovuto con enorme fatica elaborare un senso a quella fine assurda, il senso si è offerto da sé, in apparenza inscritto nella inestirpabile logica sacrificale, ma totalmente superandola nell’offerta di sé, libera e piena, per amore e non per sacrificio, fatta da Gesù. Quello che doveva essere il più grande fallimento di un aspirante Messia, finito in croce e a cui si irrideva, risulterà, nella mitezza e nel silenzio di un amore infinito, la chiave di conquista dei cuori.
“Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce! Il Cristo scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!» (Mc 15,29-32). Invero, proprio perché lui non è sceso dalla croce, Paolo potrà confessare: là “anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù”.
1 Cfr Is 1,11-13; Ger 7,21-23.
2 Sull’eco di Zac 14,21.
3 R. Otto, Il Sacro.
4 Cfr. la tematica di Ebrei e in 9,22: “senza spargimento di sangue non esiste perdono”. Anche la chiesa delle origini ha infatti ereditato questa tenace mentalità, che si è espressa per secoli in dubbie o aberranti teologie e nella esasperata mistica del sacrificio.
Commento a cura di Raffaela Brignola – Comunità Kairos
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