LA SPOSA, COLMA DELLA CERTEZZA DELL’AMORE DELLO SPOSO, DIGIUNA PER SAZIARSI DELLA VOLONTA’ DEL PADRE
AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE
I discepoli di Gesù digiunano per amore, nella libertà che chi non ha conosciuto il perdono non può avere. Il digiuno cristiano non è solo una pratica pia, è memoria. Passati “all’altra riva del lago, nella regione dei Gadareni”, in terra pagana gli apostoli digiunano evangelizzando, e lo può comprendere solo chi è intimamente unito a Cristo, condividendo sino in fondo il suo zelo per la salvezza delle anime di ogni uomo. Il digiuno dei discepoli di Gesù segna in qualche modo la fatica e i travagli dell’evangelizzazione, che, ricordiamolo, è sempre il frutto della sovrabbondanza dell’amore che inonda il cuore degli “invitati alle nozze”, come mostrano profeticamente le sette ceste avanzate dalla moltiplicazione dei pani di Gesù.
Il digiuno indica il cammino della Chiesa che ridiscende dal monte Tabor dove ha contemplato il Signore trasfigurato prima, e dal monte delle beatitudini poi, dove il Signore risorto li ha inviati in missione: “L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima del 2013). Il Signore asceso al Cielo scompare in una nuvola alla vista carnale dei suoi apostoli, ma è vivo in loro e li accompagna con segni e prodigi sino agli estremi confini della terra dove li invia ad annunciare il Vangelo, come già aveva sperimentato il popolo d’Israele nel deserto, guidato proprio dalla nuvola della presenza di Dio.
Così, compiendo la propria missione “nei giorni in cui lo Sposo è tolto” dalla visione dei loro occhi, i discepoli digiunano della vista carnale del Signore, seguendo nella fede i moti dello Spirito Santo riversato in loro; e non è cosa da poco: lo sanno bene i missionari che spesso si trovano nella completa solitudine ad annunciare il Vangelo in terra ostile e indifferente; come lo sanno i genitori alle prese con la crescita spesso costellata di ribellioni e dolore dei propri figli; lo sanno i ragazzi cristiani chiamati ogni giorno ad affrontare il mondo della scuola e dell’università pronto a sedurli con sofismi e insinuazioni perverse di facili e false soddisfazioni degli ardori giovanili; lo sanno gli anziani lasciati soli in una società che di loro non ha più bisogno; lo sanno i malati chiamati al combattimento più arduo sul fronte della fede messa a dura prova dalla debolezza e dalle sofferenze che minano il fisico. Lo sa chiunque è stato afferrato dall’amore dello Sposo e freme della stessa compassione dinanzi al mondo che non lo conosce. Il digiuno che si tinge di zelo e crocifigge i discepoli nella storia d’amore che Dio intesse con ogni uomo, è la forma più autentica di rispondere alla chiamata di Gesù: “massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana” (Benedetto XVI, ibid). I discepoli digiunano sui sentieri della missione per amore di ogni uomo, perché il mondo possa sfamarsi con il pane della Parola da loro annunciata. Essi digiunano dai propri schemi, dai progetti e dalle stesse aspettative, per quanto nobili siano, per abbandonarsi all’Opera divina che guida e provvede alla missione. San Paolo descrive più volte la vita dell’apostolo, ed essa appare immersa in un digiuno continuo, di fama, onore, considerazione; gli apostoli vanno erranti, perseguitati, affamati, rifiutati. Ma proprio questo digiuno è il segreto dell’autentico successo della missione, perché, come lo Sposo che li ha inviati, “mentre essi muoiono, il mondo riceve la vita”. Per questo il digiuno cristiano è racchiuso nell’immagine della Pietà: il digiuno della Vergine Maria che, con l’anima trafitta dal dolore, contempla colma d’amore e speranza il corpo senza vita del suo Figlio. Lo guarda e vede oltre i sensi il suo ritorno vittorioso, senza che ciò le risparmi il dolore. Il digiuno a cui siamo chiamati in questa Quaresima è l’aiuto che la Chiesa ci offre per combattere con la carne che non sa aspettare, che vuole cambiare le pietre in pane perché di tutto deve saziarsi. E’ l’amore a Cristo e alle persone che si fa digiuno, un cuore in attesa dello Sposo che ne annuncia a tutti il ritorno.
IL DIGIUNO. UN APPROFONDIMENTO
Il digiuno è racchiuso nell’immagine della Pietà: la Vergine Maria che, con l’anima trafitta dal dolore, contempla colma d’amore e speranza il corpo senza vita del suo Figlio. Lo guarda e vede oltre i sensi il suo ritorno vittorioso, senza che ciò le risparmi il dolore d’una madre di fronte alla morte di suo figlio. “La beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata” (Catechismo). In questa prospettiva comprendiamo come digiunare costituisca una condizione essenziale dell’esistenza, la forma concreta di vivere in pienezza la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, nello stesso tempo, non è qui, perché il compimento al quale siamo chiamati ci attende nel Cielo. La terra è un cammino, e la mancanza e il desiderio di pienezza si acuiscono nell’avvicinarsi alla meta: “Già presente nella sua Chiesa, il regno di Cristo non è tuttavia ancora compiuto «con potenza e gloria grande» (Lc 21,27) mediante la venuta del Re sulla terra.
Questo regno è ancora insidiato dalle potenze inique, anche se esse sono già state vinte radicalmente dalla pasqua di Cristo. Fino al momento in cui tutto sarà a lui sottomesso, «fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e attendono la manifestazione dei figli di Dio” (Catechismo della Chiesa cattolica). Per questo digiunare è inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno, nella consapevolezza che proprio la perseveranza nella carità – innanzi tutto l’annuncio del Vangelo in ogni tempo e luogo – è l’unica via per affrettare la sua venuta: nella fornace del mondo, infatti, siamo chiamati a vivere “nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio” (2 Pt. 3,12). Il digiuno manifesta così quella sorta di santa tristezza che giace spesso nascosta nel cuore. Sfuggirla significa chiudersi alla verità e consegnare la vita ad un fallimento certo. Il digiuno ci aiuta a riconoscere la tristezza secondo Dio, quella per i nostri peccati e per non poter vedere già il trionfo del Signore nel mondo, “come strumento significativo del disegno di Dio, per cui la vita sia sempre, in qualsiasi caso soggetta alla percezione di qualcosa che manca. Ed è provvidenziale che la vita sia triste è l’argomento più affascinante per farci capire che il nostro destino è qualcosa di più grande, è il mistero più grande. E quando questo mistero ci viene incontro diventando un Uomo, allora questo fascino diventa cento volte più grande. Non ti toglie la tristezza, perché il modo con cui Dio diventa uomo è tale che l’hai senza averlo, l’hai già e non l’hai ancora” (Don Giussani).
“Muoio perché non muoio” diceva Santa Teresa d’Avila, e non era disprezzo della vita. Anzi, più si vive intensamente la vita più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l’ansia d’un amore perfetto e definitivo. E’ il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell’attesa del compimento. La Chiesa che vive dell’eucarestia, il memoriale del suo Signore, presenza viva del suo Sposo amatissimo. In essa erompe in un grido di nostalgia e speranza: maranathà, vieni, ritorna Signore Gesù. Il digiuno è il nostro maranathà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l’attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui, al posto che ha preparato per noi. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quella cena lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello»(Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù. Un digiuno che è una promessa, un appuntamento d’amore, l’attesa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Le sofferenze, la precarietà, le malattie, i fallimenti, le proprie debolezze sono il digiuno d’ogni giorno vissuto come una missione, perché la Croce è il digiuno più autentico, sigillato nella libertà di chi consegna la sua carne senza sperare nessun altro guadagno che Cristo.
Quando siamo incastrati sul legno della Croce il digiuno si fa naturale: non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualsiasi cosa che ci separi da Cristo, è un’esigenza. Sulla Croce, infatti, muoversi anche solo un pochino produceva dolori lancinanti; per questo sulla Croce si digiuna da tutto, per essere in tutto uniti a Cristo che ha portato nella sua carne i dolori che sarebbero spettati a noi: niente giudizi, niente mormorazioni, nessuna invidia, nessun peccato di morte, nessun movimento innaturale della carne (questo è, in definitiva, il peccato), solo un infinito e totale abbandono a Cristo, che il digiuno ci aiuta a compiere. Esso, dunque, è come un grido dalla Croce, l’eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ questa l’ascesi, l’ascesa al trono di misericordia che sappiamo non deludere mai. Essa comporta, paradossalmente, un cammino in discesa, simile a quello percorso dai catecumeni della Chiesa primitiva per arrivare a immergersi nelle acque del battesimo: digiunare significa, infatti, spogliarci dell’uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni e le esigenze della carne, per immergerci nella misericordia di Dio che perdona ogni peccato, e rivestirci dell’uomo nuovo, creato a immagine dello Sposo, a Lui vincolato in un amore incorruttibile.
Digiunare in Quaresima è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, mentre la fame che il digiuno suscita ci fa consapevoli della nostra realtà, nella quale il Corpo benedetto e risorto del Signore è l’unico vero cibo capace di saziarci. Digiunare è crocifiggere la carne perché sia strappata alla menzogna e messa al servizio della giustizia; per questo proprio il digiuno è la condizione naturale della carne, in contraddizione con la mentalità del mondo che invece la vuole strumento e veicolo di ogni soddisfazione dei sensi. Digiunando si vive secondo la volontà di Dio, quali creature bisognose del suo Spirito Santo, nel quale offrire a Lui carne, mente e cuore perché compiano le opere buone preparate per noi. Digiunare come una vergine appena accolta dallo Sposo, in attesa d’essere una sola carne redenta con Cristo, nell’ansia del santo e castissimo amplesso, il non ancora che ci attira e colma di speranza e allegria, perché il Signore ci ha assicurato e detto “Io vengo presto, tieni fermamente quello che hai, affinché nessuno ti tolga la tua corona” (Ap. 3,11).