Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 14 Febbraio 2021

Un tu che ha a cuore la guarigione

Il brano evangelico di questa domenica presenta l’incontro di Gesù con un lebbroso. E per cogliere adeguatamente il senso di tale incontro occorre riflettere sulla condizione del lebbroso nella Bibbia. Anzitutto va ricordato che se per noi il termine “lebbra” designa la lebbra classica, il cui bacillo fu scoperto da Hansen nel 1871, per la Bibbia esso abbraccia un’ampia serie di affezioni cutanee e malattie della pelle: micosi, psoriasi, leucodermia, leucoplasia, dermatosi con calvizie, eczema, ecc. Si tratta di malattie che si evidenziano sulla pelle e divengono una sorta di marchio visibile, non solo della malattia stessa, ma anche della vergogna ad essa connessa. Per la Bibbia infatti, la lebbra è un castigo divino che punisce peccati commessi: Maria, sorella di Mosè, divenne lebbrosa a seguito del suo peccato di mormorazione (Nm 12,1-10); Davide invoca la lebbra sulla casa di Joab come castigo per l’omicidio che questi ha commesso (2Sam 3,29); in Dt 28,25-27 la lebbra è elencata fra le maledizioni rivolte al popolo di Dio se non obbedisce alla sua voce. Alla sofferenza per la malattia, il lebbroso unisce anche il dolore e la vergogna per la colpevolizzazione, perché la lebbra lo dichiara pubblicamente peccatore e colpito da Dio. Non è solo vittima della malattia, ma ne è anche colpevole! Questo è lo sguardo che gli altri portano su di lui, questo è lo sguardo che lui stesso arriva ad assumere su di sé.

Del resto la sua identità personale è espropriata dalla sua malattia: egli, dice il Levitico, “porterà le vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lv 13,45-46). Il lebbroso incute paura: può contagiare gli altri e perciò è abbandonato dai famigliari, evitato dalle altre persone, emarginato: la società lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti dai centri abitati. Normalmente viveva in grotte o capanne e il suo sostentamento era affidato alla carità di parenti o persone misericordiose che portavano cibo e vestiti in questi luoghi, restando però sempre fisicamente a distanza dai contagiati. Le relazioni con il lebbroso sono interdette ed egli è colpito in tutte le sfere relazionali. La sfera fisica: il suo corpo piagato gli diviene estraneo ed egli può arrivare a non riconoscersi più; la sfera famigliare, affettiva e sessuale: estromesso dalla famiglia, ogni contatto con lui è tabù; la sfera sociale: allontanato dalla società, dal lavoro, dalla partecipazione alla vita del villaggio; la sfera psicologica e morale: è giudicato peccatore e colpevolizzato; la sfera religiosa: è escluso dalla partecipazione alla vita cultuale del popolo, a cui potrà essere riammesso una volta che i sacerdoti ne abbiano constatato la guarigione. Insomma, poiché per la Bibbia la vita è relazione, il lebbroso, le cui relazioni sono compromesse o proibite, è un morto vivente. Egli, dice il libro dei Numeri, è “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (Nm 12,14). Per la Bibbia la lebbra è il caso di massima squalificazione sociale e personale, è l’insorgenza del caos nella vita di un uomo. Ora, se questa è la condizione del lebbroso secondo la Bibbia, è importante vedere come si comporta Gesù davanti a un lebbroso. Questo ci narra Mc 1,40-45.

Notiamo che è il lebbroso stesso che va da Gesù con atteggiamento supplice che manifesta fede in ciò che Gesù può fare per lui (Mc 1,40). Colpisce questo atteggiamento: se la malattia a volte indurisce, incattivisce, isola, porta a nutrire sfiducia verso gli altri e a ritirarsi dalla vita, perfino a maledirla, quest’uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù. Colpiscono il suo coraggio, la sua volontà di guarire, la sua sete di vita. La guarigione trova nel malato il suo più potente alleato. Anzitutto, egli supera con slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: “Se vuoi, puoi purificarmi”. Egli trova finalmente un “tu”, qualcuno con cui relazionarsi, che non lo lascia nell’isolamento, ma gli rivolge uno sguardo non omologato, uno sguardo di comprensione e condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Non si chiude nell’autocommiserazione, non si piange addosso, ma si rimette al buon-volere di Gesù, quasi dicendogli: “se è tua gioia il guarirmi, tu puoi farlo”. Ciò che cerca è anzitutto una relazione. Potremmo parafrasare: “se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare”. La guarigione emerge nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa, per il lebbroso, è il sapere che la sua reintegrazione nella pienezza di vita è voluta da un altro, che la sua persona e la sua vita sono preziose per un altro.

Inoltre, le parole “Se vuoi, puoi purificarmi”, sono più una confessione di fede che una domanda, una dichiarazione dell’identità di Gesù più che un’invocazione. Esse infatti riprendono e sintetizzano ciò che già si è visto in Mc 1: che Gesù è un uomo “che parla con autorità, non come gli scribi” (Mc 1,22), ovvero che la parola di Gesù è un fare, che in lui dire e fare coincidono. La qualità performativa della parola di Gesù emerge nella chiamata dei primi quattro discepoli (Mc 1,16-20); nella guarigione dell’indemoniato nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28) e nella guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31; qui sono i discepoli che dicono e Gesù fa). La coincidenza di parola e azione rivela la qualità della presenza di Gesù. Dunque, l’autenticità della relazione tra il lebbroso e Gesù consiste anzitutto nel pieno riconoscimento che il malato opera della persona di Gesù.

La reazione di Gesù è anzitutto la compassione (Mc 1,41): Gesù si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Gesù accetta di incontrare colui che tutti evitavano, mostrando così che l’impurità e la sporcizia più grandi sono quelle di chi rifiuta di sporcarsi le mani con gli altri. Gesù tocca l’emarginato narrando in modo tattile la sua vicinanza e superando il tabù sacrale. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo pagato per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo l’organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche il luogo dell’esperienza e dello scambio che noi facciamo con il mondo. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza. L’incontro con l’altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando a grandi passi e questo grazie al ritrovamento di una relazione autentica. Le misure di autodifesa della società sono vinte grazie alla compassione, che è il rifiuto radicale dell’indifferenza al male. La compassione si rifiuta di abbandonare l’altro alla solitudine della sua sofferenza. “Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro… Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione… Soffrire non ha senso, … ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la solo giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità… La compassione, cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo” (Emmanuel Lévinas).

Gesù inoltre riprende e sposa le parole del lebbroso stesso quando gli dice: “Lo voglio, sii purificato”. Gesù si lascia incontrare da lui e fa avvenire in lui qualcosa della diversità che abitava il lebbroso. In effetti, l’episodio si conclude mostrando un Gesù che si trova nella situazione del lebbroso: “Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti” (Mc 1,45). Gesù guarisce ma al prezzo di una perdita, dell’assunzione della situazione dell’altro. Gesù prende su di sé la sofferenza dell’altro e appare come il Servo sofferente che ha assunto e portato le nostre infermità. Il testo latino di Is 53,4 parla del Servo come di un lebbroso: Nos putavimus eum quasi leprosum (“Noi lo considerammo come un lebbroso”). Il testo si fa rivelativo. La miseria del lebbroso diviene la miseria del Crocifisso disprezzato e reietto dagli uomini: la guarigione va compresa alla luce dell’impotenza della croce, dove l’unico senza-peccato occupa il posto dei peccatori, di coloro che sono nella vergogna e nell’umiliazione. La potenza della guarigione si manifesta al prezzo di un impoverimento e di un indebolimento di Gesù Cristo che nella croce troverà la sua massima epifania.

[? Leggi la Liturgia di domenica prossima]

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


Read more

Local News