Commento al Vangelo del 14 Febbraio 2021 – don Giovanni Berti (don Gioba)

Toccare per guarire

Me lo ricordo il lebbrosario di Cumura in Guinea Bissau, quando l’ho visitato in un viaggio missionario con diversi giovani della diocesi, 25 anni fa. Fino ad allora i lebbrosi li avevo visti solamente in foto o in qualche documentario. In tutto il gruppo c’era un misto di curiosità e paura, rischiando di dimenticare che non andavamo a visitare dei fenomeni da baraccone ma persone malate.
La lebbra ancora oggi è tra quelle malattie che più fanno paura e impressionano perché arrivano a modificare il corpo del malato in modo orribile alla vista, e terribile per chi ne porta le conseguenze.

Ai tempi di Gesù la lebbra era una malattia che insieme ad altre, che colpivano il corpo esteriormente, portavano le persone all’emarginazione sociale e religiosa. La paura della malattia portava a dimenticarsi della persona colpita e a identificarla con il suo male. La persona malata di lebbra diventava semplicemente “un lebbroso” che insieme al suo male andava combattuto e isolato.
La prima cosa che colpisce nel racconto di Marco, è l’intraprendenza di questo uomo malato. Lui che secondo le leggi doveva stare distante da tutti, coprendosi il volto e avvertendo con grida o suoni che nessuno lo avvicinasse, al contrario qui si avvicina a Gesù e gli rivolge una supplica: “se vuoi puoi purificarmi”. Questo lebbroso dimostra che sotto l’apparenza di uomo maledetto, si nasconde un uomo di grande fede e grande speranza e si fida che Gesù non lo allontanerà.

E Gesù, che è venuto proprio a mettere in luce quello che c’è nel cuore degli uomini al di la di ogni apparenza e oltre ogni pregiudizio, fa qualcosa che è fortemente sovversivo: tende la mano e tocca il lebbroso. Gesù con quel tocco vuole raggiungere l’uomo andando oltre la sua malattia. Gesù combatte il male ma non il malato.

Con quel gesto Gesù in realtà vuole guarire soprattutto la società dalle conseguenze di quella malattia. Quel toccare diventa un ponte che mette in comunicazione i due, i quali al di là di come sono vestiti, al di là della salute del corpo, del rango sociale, delle condizioni economiche e anche oltre i meriti e difetti, sono due uomini, due esseri umani uguali e fratelli. Toccando quell’uomo Gesù vuole guarire anche la religione del suo tempo che aveva codificato la paura della malattia in regole di separazione ed esclusione.
Gesù non sopporta il pregiudizio e l’esclusione che sono la vera lebbra che deturpa la comunità.

Il gesto di Gesù nel suo incontro con il lebbroso mi ricorda un episodio simile nella storia straordinaria di San Francesco. Il Santo di Assisi nel suo Testamento ricorda quell’incontro che segnò una tappa fondamentale della sua conversione. “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo” (Testamento di San Francesco, numero 110).

Francesco superando la paura e la comprensibile repulsione verso una malattia così terribile anche allora nel Medioevo, alla fine arriva a guarire sé stesso. Sente che in quell’abbraccio, che diventerà poi impegno continuato e deciso verso i lebbrosi di Assisi, c’era tutta la forza di Dio che abbatte muri e maschere e aiuta a vedere sé stessi nel prossimo e incontrare anche Dio.

In questo stranissimo tempo di Pandemia siamo tutti obbligati ad aumentare le distanze fisiche, a mascherarci il volto e a non toccarci. Queste regole sanitarie doverose e giuste, non diventino la scusa per aumentare le distanze umane e a coltivare paure e pregiudizi. Questo tempo in cui siamo tutti un po’ malati ed esclusi, diventi al contrario un’occasione straordinaria per guarirci gli uni gli altri toccandoci nella nostra umanità, andando oltre le apparenze e le maschere che ci gettiamo addosso e poter vedere sempre nell’altro un fratello e una sorella da amare. Facendo questo non solo aiutiamo l’altro ma guariamo prima di tutto noi stessi, guariamo quella lebbra del cuore che spesso facciamo fatica a vedere ma c’è.

Quando andammo via dal lebbrosario di Cumura, tornammo non tanto con il ricordo di lebbrosi, ma con il ricordo di tante persone dalle storie incredibili di sofferenza e solidarietà, e con il desiderio di fare anche noi lo stesso. Volevamo vedere dei malati, ma alla fine loro ci toccarono con la loro storia e iniziarono a guarirci.


Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)

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