Gesù tocca e guarisce noi che siamo lebbrosi
Nel vangelo di questa domenica leggiamo un racconto che ha un inizio improvviso, senza precisazione di tempo e di luogo, un racconto che facilmente ci appare attuale, collocabile qui è ora: è l’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra.
Il lebbroso era allora ed è ancora adesso un malato ripugnante, a tal punto che lo si qualificava come un uomo morto. Per un giudeo, poi, la lebbra era segno di un preciso castigo di Dio, una malattia mediante la quale erano stati colpiti per i loro peccati la sorella di Mosè, Miriam (cf. Nm 12,9-10), il servo del profeta Eliseo (cf. 2Re 5,27) e altri peccatori. Grande è l’orrore, terribile la reazione di fronte a questa malattia che devasta fino alla putrefazione della carne il volto e il corpo dei malati.
Essendo la lebbra contagiosa, esigeva che il malato fosse escluso dalla convivenza, segregato in qualche luogo deserto e riconoscibile dal grido che doveva emettere qualora vedesse qualcuno avvicinarsi a lui: “Sono impuro! Sono impuro!” (cf. Lv 13,45-46). Un lebbroso appariva dunque come una persona senza possibilità di relazione e di comunione, né con Dio né con gli uomini. Non era solo un malato, ma un “impuro”, come un cadavere. Toccare una persona in quella condizione significava escludersi da qualsiasi atto religioso. Ci si poteva riaccostare al lebbroso solo dopo la scomparsa in lui dei sintomi del male e dopo la sua “purificazione”: questa doveva essere riconosciuta da un sacerdote il quale, con un atto religioso, poteva reintegrare la persona nella comunità dei credenti.
Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, tu puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione.
E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e sa cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana. Ma si faccia attenzione alle parole di Gesù. In risposta alla supplica dell’altro, egli non risponde: “Io lo voglio e ti purifico!”, ma: “Io lo voglio, sii purificato!” (passivo divino). Gesù lascia il posto a colui che purifica, Dio: non pretende di occuparlo, ma proclama il suo desiderio e la sua volontà che quell’uomo non debba più essere separato, ma possa essere purificato, guarito.
L’evangelista non sapeva però che, usando alcune espressioni che testimoniano l’umanità vera e concreta di Gesù, poteva destare stupore, opposizione e giudizio su Gesù stesso. Sempre, infatti, soprattutto tra gli uomini religiosi, ci sono anime mefitiche, talmente tese a una santità formale che si scandalizzano della passione di Gesù e della sua collera. Questi religiosi sono sempre in scena. Per loro Gesù avrebbe dovuto prima pensare a cosa prevede la Legge, poi mostrare il suo sentimento conformemente a ciò che la Legge comanda. […]
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