Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 1 Febbario 2021

È appena trascorsa una notte insonne di angoscia, in cui i discepoli si sono visti vicino alla morte nel mare in burrasca. Nonostante l’insegnamento di Gesù, i discepoli non avevano compreso il senso vero di quelle parole pronunciate quel giorno sulla riva del mare (cf. Mc 4,13).

Ora sono giunti all’altra riva tra i pagani, come annunciava il profeta:

“Mi feci ricercare da chi non mi consultava,
mi feci trovare da chi non mi cercava …
abitavano nei sepolcri,
passavano la notte in nascondigli” (Is 65,1.4).

Un indemoniato, uomo disumanizzato e lacerato dentro, gli corre incontro. Qui colpisce la lotta che si consuma: lotta fra chi è libero e chi è incatenato. Ma chi è libero per davvero in questo racconto? C’è chi si crede libero, e incatena gli altri; e chi per restare libero e liberare gli altri, accetta anche di andarsene (cf. v. 17).

Ora, dopo l’insegnamento a parole (Mc 4), Gesù nella pratica ci fa fare esercizi di libertà, la sua è quasi una pedagogia della libertà. Prima, infatti, scioglie i legami e le catene dell’uomo indemoniato: questi si dibatte e si ribella perché gli altri – invece di averne cura – lo legano e lo escludono, come se avessero paura di parlargli e di lasciarlo esprimere. Gesù invece gli parla, lo interroga con pazienza (v. 9: “gli domandava”), lo accompagna per mano fuori dalle sue prigioni interiori ridandogli parola e fiducia. Quell’uomo infatti non sa chi è, non conosce ciò che si muove dentro di sé, ne ha paura, non sa spiegarlo nemmeno a se stesso, e di conseguenza si comporta in modo autodistruttivo: è come se attendesse la Parola che lo unificherà, sulla quale fondare la propria esistenza.

Gesù, poi, lo spinge nel mare della vita, senza legarlo a sé (vv. 19 ss.), lo spinge a non avere paura della propria esperienza, lo invita a testimoniare la liberazione che ha ricevuto, ad annunciare la buona notizia vissuta, cioè quel vangelo che ha conosciuto concretamente nella relazione con lui.

Una parola chiave del racconto è “paura”: in modo esplicito ricorre al v. 15 (i cittadini hanno paura nel vedere un uomo risanato: è quasi un paradosso!). Questa paura ricorda quella dei discepoli la notte passata (cf. Mc 4,41), che è la mancanza di fiducia di chi non vede ciò che il Signore opera (cf. Mc 4,12). È la paura della libertà, quella della Legione che teme l’azione di Dio nella storia, la stessa paura che muove l’uomo risanato a supplicare di restare con Gesù, perché è più facile restare incatenati o cercare nuove catene che correre il rischio di buttarsi nella vita con fiducia, per amore, con l’impegno e la speranza di instaurare relazioni liberanti.

E noi? Come sono le nostre relazioni? Veramente fraterne, cioè che mirano alla libertà dell’altro? Sappiamo (e vogliamo) noi creare rapporti sani e trasparenti, che non solo lascino liberi gli altri ma che li liberino dai mille legami che insidiosamente noi stessi siamo tentati di forgiare? E che aumentino quindi la libertà in noi? Siamo in grado di riconoscere quelle relazioni che ci incatenano in dinamiche insane, sappiamo dare il nome a questo, oppure cerchiamo in mille modi di convincerci di essere liberi e capaci di liberare, autoingannandoci con le nostre stesse parole (che però di fatto ci frammentano e ci dividono dalla vita), perché abbiamo paura della libertà che ci è stata donata?

un fratello di Bose


Fonte

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