Di questa parabola siamo convinti di sapere già tutto: ne abbiamo tre versioni nei Vangeli sinottici, ciascuna con la successiva spiegazione per i discepoli, che gli evangelisti attribuiscono a Gesù stesso. Ne abbiamo negli occhi e nel cuore le più svariate raffigurazioni, sacre, profane, antiche e moderne che hanno attraversato secoli di annuncio del Vangelo. Abbiamo bene in mente chiose, commenti e predicazioni che abbiamo ascoltato fin dalla nostra infanzia. Da almeno un secolo, poi, possiamo sapere tutto anche delle pratiche agricole nella Palestina ai tempi di Gesù, della morfologia e produttività di quei terreni più o meno sassosi e impervi. Tutto questo però conta poco se non cerco di cogliere il significato delle parole di Gesù per me, se non applico il testo a me stesso e me stesso al testo.
E applicare me stesso al testo significa anche, per esempio, rendermi conto che nella versione di Marco della parabola non c’è traccia del seme. Quel termine infatti appare solo nella spiegazione per dire che “il seme è la parola di Dio”, ma il racconto di Gesù alla folla – a differenza della spiegazione successiva riservata ai soli discepoli, appunto – parla solo del seminatore, del suo gesto di seminare e dell’esito differenziato che tale gesto produce a seconda del terreno e delle realtà circostanti: una strada e degli uccelli, dei sassi esposti al sole, dei rovi e infine anche un po’ humus fertile. È strano che la spiegazione di Gesù così dettagliata sia rivolta ai discepoli, che avrebbero dovuto avere maggiore dimestichezza con il linguaggio anche figurato del loro Maestro, e non invece alle folle, che avrebbero potuto trarre vantaggio da un approfondimento puntuale di un racconto così vicino alla loro esperienza quotidiana. Gli evangelisti invece operano al contrario: spiegano di più a chi apparentemente ne avrebbe meno bisogno.
Allora, nell’applicare il testo a me stesso, vorrei per una volta mescolarmi alla folla e restare fuori dalla soglia dell’intimità con il Signore: che ne faccio, nella mia vita qui e oggi, dell’esempio agreste proveniente da un mondo così lontano? Evidentemente, se c’è un seminatore e una semina, ci dev’essere per forza anche un seme, ma forse è importante che io rifletta su ciò che anima quel seminatore. Perché esce? Perché semina in quel modo? Perché osserva che ne è della sua semina? Perché tiene conto di tutti i fattori e valuta il risultato quantificandolo solo per la parte seminata nel terreno buono? Forse perché anch’io sappia valutare il comportamento e lo sforzo di quel seminatore, tenendo conto di tutte le situazioni e gli eventi che ne condizionano anche pesantemente il risultato. Forse perché mi renda conto che il seminatore non ha a cuore solo il terreno buono, che è uscito per andare incontro anche alla strada battuta, ai sassi e ai rovi, che la sua semina ha voluto raggiungere anche chi buono non era. In fondo la parte finita sulla strada ha nutrito gli uccelli del cielo, magari a nome del Padre nostro celeste, in fondo anche i roveti sono piante che hanno avuto un ruolo non marginale nella rivelazione del nostro Dio, in fondo anche dalle pietre Dio può far nascere figli ad Abramo…
Siamo così sicuri che parte della semina sia andata perduta?
fratel Guido
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