Con il battesimo di Gesù termina il tempo liturgico di Natale. Il senso di questa conclusione si coglie nel significato della parola “battesimo”, che in greco significa “immersione”. Battezzare nel nome della Trinità significa immergere la vita umana in quella trinitaria, sancendo così il passaggio da creatura di Dio a figlio di Dio. Abbiamo letto nelle liturgie natalizie (prologo del vangelo di Giovanni) che lo status di figlio non è conseguente alla nascita bensì è un «potere che si accoglie» (cfr. Gv 1,12).
L’immersione nella vita divina segna il passaggio dal tempo di Natale – ossia il tempo dell’infanzia – all’età adulta, che per un cristiano è quella della vita segnata dalla proiezione verso la vita eterna, di un’esistenza votata a centrare il bersaglio: imparare a vivere immersi nell’amore di Dio, per poterlo prima ricevere e poi condividere.
È naturale chiedersi perché Gesù abbia acconsentito a farsi battezzare, lui che di certo viveva già la sua “immersione” nella vita divina; benché non ne avesse bisogno, l’episodio è fondamentale per noi, perché il suo battesimo pubblico ha permesso l’esternazione della prima manifestazione del Padre nel Nuovo Testamento: «Tu sei il figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11). Parla di suo figlio come farebbe qualunque genitore quando guarda commosso la propria creatura; lo vede come il suo bambino, il suo cucciolo, colui nel quale è tutto il compiacimento di papà. Però è anche un’esternazione per tutti gli uomini: “guardate, cari figli, cosa vi sto donando: la cosa più preziosa che ho”. Se c’è una cosa preziosa sono proprio i figli, per i quali un genitore donerebbe la vita all’istante se fosse necessario. Qui la prospettiva è letteralmente opposta: c’è un genitore – Dio Padre – che offre la vita del figlio. Quale genitore lo farebbe per salvare il figlio di un altro?! Solo un folle; infatti san Paolo parla di «follia – o stoltezza – della croce» (cfr. 1Cor 1,18).
L’episodio del battesimo di Gesù ci parla in primis dell’amore smisurato e sconfinato che il Padre ha sì per il Figlio, ma soprattutto per noi figli “potenziali”; e per trasformare questa semplice potenzialità in concretezza è disposto a pagare con il Figlio, usato come riscatto (cfr. Mc 10,45). Comprendere quanto Dio ami l’uomo è il primo passo fondamentale per vivere consapevolmente l’“immersione” nella vita trinitaria: essa non è fatta d’altro che di amore, il quale si manifesta in tutto ciò che la vita ci presenta, al suo ritmo, con le sue obbedienze e le sue difficoltà, anche insormontabili. Ce lo ricordano i magi, appena incontrati nella festa dell’Epifania, con il loro inseguire la stella – costi quel che costi – che simboleggia l’amore che si incarna dal cielo nel mondo, ma che dal mondo non potrà mai venire.
Ce lo ricorda la serva di Dio Chiara Corbella, che sulla sua tomba (nella foto) ha voluto fosse scritto: «L’importante nella vita non è fare qualcosa, ma nascere e lasciarsi amare», dopo aver sperimentato sulla sua carne quanto l’amore di Dio possa permetterci di superare ogni difficoltà e vivere già qui e ora, qualunque sia la nostra condizione, la dolcezza che ci attende nella pienezza della vita eterna.
La festa del battesimo di Gesù ci ricorda quanto siamo cari al Padre e che il suo compiacimento è nella nostra salvezza.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli