Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 10 Gennaio 2021

La tenera violenza dello Spirito

Il brano evangelico (Mc 1,7-11) si apre con la presentazione della predicazione di Giovanni. Giovanni mostra la propria autocoscienza presentando se stesso e la sua azione come qualcosa che scompare di fronte a colui che viene dopo di lui. Se entrambi, Giovanni e Gesù, sono interni al disegno di Dio, se entrambi sono intravisti dalle scritture profetiche, Giovanni afferma di essere perfino “incapace” (Mc 1,7) di fare il gesto del servo nei confronti di colui che viene dopo di lui. Essi sono necessari l’uno all’altro: senza Gesù, il ministero e la predicazione di Giovanni cadrebbero nel vuoto; senza Giovanni, il ministero di Gesù mancherebbe del radicamento nella storia e della testimonianza anticipata che l’autorizza. Di colui che viene dopo, Giovanni parla, ma non c’è dialogo fra i due. Non c’è, stando al nostro testo, una relazione diretta. Giovanni prepara la strada a chi viene dopo, ma rispetto a lui sta ritirato e il testo fornisce l’impressione che sia una sorpresa per Giovanni stesso la persona di Gesù. Giovanni parla al passato del proprio ministero (“Io vi ho battezzato con acqua”), come già terminato, e parla al futuro e in modo enigmatico di quello di Gesù: “Egli vi battezzerà in Spirito santo”. L’immagine del battezzare, dell’immergere, si addice all’acqua più che allo Spirito, anche se a volte si parla dello Spirito come di ciò che deve essere versato. Un testo di Qumran afferma che la purificazione sarà operata quando “Dio verserà sull’uomo lo spirito di verità come acque lustrali” (1QS 4,20-21). Tuttavia abbiamo qui un passaggio importante: dall’immersione battesimale si passa a un cambiamento operato dallo Spirito di santità di cui non si dice come avverrà.Appunto: come avverrà questo battesimo? Sappiamo che sarà opera di colui che è il più forte rispetto a Giovanni. Ora, nel linguaggio biblico lo Spirito di Dio è potenza irresistibile di azione, di creazione, di trasformazione concreta. Il battesimo in Spirito santo comporterà dunque una trasformazione profonda, interiore.

Ma ecco che i versetti 9-11 mettono in scena Gesù. Gesù si presenta solo. Tutto avviene senza testimoni. Se Giovanni vedeva folle accorrere a lui ed era in mezzo alle folle che provenivano da Gerusalemme, Gesù è presentato solo, come sarà solo nel deserto, tutt’al più in mezzo a fiere, angeli e demoni. Figure, queste, di una solitudine che è lotta e consolazione. Se Giovanni vive uno spazio orizzontale, in mezzo alle folle pur nel deserto, Gesù è posto in relazione verticale con il cielo che si lacera, lo Spirito che ne discende, la voce che si rivolge a lui solo. Con Giovanni stesso non vi è alcun dialogo. Il loro incontro non ha bisogno di alcuna mutua conoscenza diretta, ma vive appoggiato su altro. Gesù si sottomette al battesimo di Giovanni dopo esser venuto da Nazaret di Galilea e in questa vicenda così concreta, per niente speciale, ecco che avviene l’adempiersi della Scrittura. Il testo sembra suggerire che la Scrittura si compie senza che gli uomini vi pensino o la programmino. Giovanni avrà preparato la strada al Signore senza sapere come o da dove il Signore sarebbe venuto e che volto avrebbe avuto. E il gesto dell’immersione è portatore di novità per Gesù stesso: salendo dall’acqua egli (ed egli solo) vede l’invisibile. Vede i cieli che si squarciano e a questa immagine violenta segue quella ispirata a tenerezza della colomba, o meglio dello Spirito che scende, come colomba, verso di lui. Al termine della discesa l’immagine della colomba svanisce perché lo Spirito scende su Gesù, anzi in Gesù. È un dono che penetra fin nel più intimo di Gesù. Se Gesù immergerà in Spirito santo, per ora lo Spirito si immerge in lui e lo abita e lo muoverà, come nell’episodio immediatamente successivo delle tentazioni nel deserto (Mc 1,12-13). L’immagine “come colomba” è un tratto poetico e simbolico: ciò che avviene è impercettibile, è qualcosa di tenero e delicato ma anche di violento e lacerante. Lo Spirito, dirà Marco, getterà, spingerà Gesù nel deserto con violenza per la lotta contro l’Avversario (Mc 1,12). Vi è qualcosa di tenero e violento come in una nascita. E Gesù, salendo dall’acqua, sente la voce celeste e vede lo Spirito scendere su di lui. Vede lo Spirito che scende e ascolta la voce dall’alto che dice: “Tu sei mio figlio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”. Cosa dice questa frase? Dice anzitutto “tu”, stabilisce l’altro come un “tu”. Vi è essenzialmente una valorizzazione di chi Gesù è. Tutto l’interesse è incentrato su Gesù, sul suo essere. Non vi è tanto un’investitura regale come argomentano in molti basandosi sul fatto che “tu sei mio figlio” è citazione di Sal 2,7, un Salmo messianico; non c’è nessuna pubblica presentazione del servo come in Isaia 42,1 citato nell’ultima parte di Mc 1,11 (“in te ho posto il mio compiacimento”); non c’è alcuna formulazione di missione ma solo una voce che si rivolge a un altro per parlargli come un padre parla al suo figlio unico e amato. Come unico e amato è Isacco per Abramo, stando a Gen 22,2 citato sempre nel v. 11.

Di più. Questa parola che ha in vista Gesù e la sua unicità, ebbene questa parola fa di Gesù non un altro, ma un tu. E al “tu” aggiunge “sei mio figlio”. Questo è l’atto di riconoscimento paterno. Non tu “eri”, non tu “sei stato”, non tu “sarai”, ma tu “sei”, in una attualità perdurante che dice la stabilità della relazione e che si fonda su una precedenza di amore. Se tu sei mio figlio è perché io ti amo: perché il mio amore ti precede e ti fonda e ti è grato del tuo essere te stesso. Queste le parole necessarie che un padre deve dire al figlio: dal riconoscimento paterno dipende la nascita e il progresso della coscienza filiale presso il figlio così come della responsabilità paterna presso il padre. E poi “amato”: agapetòs, che equivale all’ebraico jachid, “unico”. L’esperienza di Gesù al Giordano è esperienza di essere amato, non di un suo protagonismo di amore in quanto solidale con i peccatori che al Giordano confessavano i loro peccati, e neppure di umiliazione in quanto sottomesso al battesimo di Giovanni, né di perfezione spirituale perché ha visto i cieli aperti e lo Spirito scendere, ma di gratuito amore ricevuto da Dio attraverso la mediazione di un uomo al cui ministero egli si è sottomesso. La parola costitutiva della filialità di Gesù dice la sua preziosità, il suo essere un tu per Dio, l’essere in cui Dio ha posto il suo compiacimento: “In te ho posto il mio compiacimento”. Questo è l’atto di filiazione in cui tutto è dovuto alla parola e non alla carne. Marco non ha un vangelo dell’infanzia come gli altri sinottici e nemmeno un prologo di alta teologia come il IV vangelo, ma in maniera narrativa espone l’idea della filialità di Gesù nei confronti di Dio in modo sottile e profondo. È il Dio Padre, il Dio che parla e dialoga che stabilisce Gesù come figlio.

L’immagine dello Spirito che, come colomba si posa su Gesù, esprime la dimensione di tenerezza che accompagna la paternità. E tuttavia, nell’atto di questa paternità vi è anche una dimensione di lacerazione e di dramma. Questo testo di Marco è echeggiato in Mc 15,37-39 dove si narra la morte di Gesù: allo squarciarsi del cielo corrisponde lo squarciarsi del velo del tempio (15,38); alla dichiarazione dall’alto “Tu sei mio figlio” corrisponde la confessione del centurione: “Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio” (15,39); se al battesimo lo Spirito discese eis Iesoun, alla croce Gesù spirò, exépneusen (15,37).

La paternità è segnata anche dalla croce. Gesù parla di un battesimo che deve ricevere e fa allusione alla croce (Mc 10,38-39). Al battesimo c’è già il mistero della consegna del Figlio e la lacerazione del cielo indica che si apre una nuova e definitiva possibilità di comunione tra Dio e uomo. Ma una nuova lacerazione si verificherà: la paternità procede di lacerazione in lacerazione. Alla croce non è solo il velo del tempio che viene scisso, ma la relazione tra Padre e Figlio. Scrive Jurgen Moltmann: “Il Padre patisce la morte del figlio. Alla morte del figlio risponde il dolore del Padre. E se in questo viaggio all’inferno il Figlio perde il Padre, anche il Padre perde il Figlio”.

Lo Spirito che era in Gesù e lo è stato fino alla fine, è lo Spirito che ha parlato in lui anche quando ha gridato l’abbandono del Padre sulla croce con le parole del Salmo 22. La filialità di Gesù si esprime allora proprio nel grido dell’abbandono. Egli si confessa figlio e si mantiene fedele a colui di cui pure grida l’abbandono. Ora, la parola è sua, come in lui è lo Spirito, mentre al battesimo lo Spirito è sceso verso di lui e la parola è venuta dall’alto. Là era il Padre che riconosceva il figlio: “Tu sei mio figlio”. Sulla croce è Gesù che confessa Dio quale suo Dio: “Mio Dio, mio Dio” (Mc 15,34). La parola del Padre che l’ha riconosciuto figlio al battesimo trova eco, nel silenzio del Padre al momento della croce, nella parola di Gesù che rimane attaccata filialmente a Dio anche nel suo abbandono. Gesù non grida nel vuoto Gesù, ma si rivolge al Dio il cui silenzio e la cui assenza sono solo il segno di una presenza ormai da cercare in Gesù stesso. La parola e lo Spirito di Dio sono ormai la parola e lo Spirito di Cristo: vedendo lui vediamo il Padre, attraverso di lui andiamo al Padre. Essere battezzati nello Spirito santo allora altro non è che essere battezzati per fede in Gesù Cristo fino al lasciarsi abitare dalla sua Parola e dal suo Spirito.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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