p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 1 Gennaio 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di venerdì 1 gennaio 2021.
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Madre di Dio: Benedite, non maledite

I cristiani hanno sempre legato la tradizionale festa di capodanno a qualche motivo della loro fede. Prima del Concilio si celebrava la circoncisione di Gesù, avvenuta, secondo quanto ci riferisce Luca, otto giorni dopo la nascita (Lc 2,21). Poi questo giorno è stato dedicato a Maria madre di Dio e, a partire dal 1968, il primo gennaio è divenuto, per volontà di papa Paolo VI, la “giornata mondiale della pace”. Le letture riflettono questa varietà di temi: la benedizione per iniziare bene il nuovo anno (prima lettura); Maria, modello di ogni madre e di ogni discepolo (vangelo); la pace (prima lettura e vangelo); la figliolanza divina (seconda lettura); lo stupore di fronte all’amore di Dio (vangelo), il nome con cui Dio vuole essere identificato e invocato (prima lettura e vangelo).

Benedire e benedizione sono termini che ricorrono frequentemente nella Bibbia, si ritrovano quasi ad ogni pagina (552 volte nell’AT, 65 nel NT). Fin dall’inizio Dio benedice le sue creature: gli esseri viventi perché siano fecondi e si moltiplichino (Gen 1,22), l’uomo e la donna perché dominino su tutto il creato (Gen 1,28) e il sabato, segno del riposo e della gioia senza fine (Gen 2,3).

Abbiamo bisogno di sentirci benedetti da Dio e dai fratelli. La maledizione allontana, separa, indica il rifiuto, la benedizione invece avvicina, rafforza la solidarietà, infonde fiducia e speranza.

“Il Signore ti benedica e ti protegga”: sono le prime parole che la liturgia ci fa udire in questo giorno perché ci rimangano impresse nel cuore e le ripetiamo ad amici e nemici lungo tutto l’anno.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Insegnaci, Signore, a benedire chi ci insulta, a sopportare chi ci perseguita, a confortare chi ci calunnia”.

Prima Lettura (Nm 6, 22-27)

22 Il Signore aggiunse a Mosé:
23 “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro:
Voi benedirete così gli israeliti; direte loro:
24 Ti benedica il Signore e ti protegga.
25 Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
26 Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.
27 Così porranno il mio nome sugli israeliti e io li benedirò”.

È molto fiorente anche oggi il mercato delle benedizioni e delle maledizioni, delle magie e dei sortilegi, delle fatture e del malocchio. Lo era molto di più nei tempi antichi quando si pensava che la parola – soprattutto se accompagnata da gesti e pronunciata da chi era dotato di poteri sovrumani e misteriosi – realizzasse quello che esprimeva.

Sempre efficace era ritenuta, naturalmente, la parola di Dio che, “con la sua parola ha creato i cieli… parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste” (Sal 33,6.9). Si temevano le sue maledizioni e si invocavano le sue benedizioni. Egli benediceva il suo popolo quando lo colmava di beni, quando elargiva prosperità e salute, successi e vittorie, piogge e fecondità ai campi e agli animali (Dt 28,1-8). Sventure, malattie, carestie, sconfitte erano i segni della sua maledizione (Dt 28,15-19).

C’erano anche dei mediatori delle benedizioni divine: il padre di famiglia (“La benedizione del padre consolida le case dei figli” – Sir 3,9), il re (Gn 14,18ss.) e i sacerdoti.

La nostra lettura riporta il testo della più famosa delle benedizioni, quella insegnata dal Signore stesso a Mosè. Doveva essere usata dai “figli di Aronne” per “porre il nome del Signore sugli israeliti” (vv.  23.27). Era impiegata al termine della liturgia quotidiana nel tempio. Il sacerdote usciva sulla porta del santuario e, stendendo le mani sulla folla che lo attendeva, proferiva questa formula sacra.

In essa, per tre volte, viene invocato il nome del Signore – YHWH – nome ineffabile che solo ai sacerdoti era permesso pronunciare e solo per benedire, mai per maledire.

A ognuna delle tre invocazioni del nome santo sono aggiunte due richieste:

  • il Signore ti benedica e ti protegga;
  • il Signore faccia splendere il suo volto su di te e ti sia propizio;
  • il Signore diriga il suo sguardo verso di te e ti conceda la pace.

Sono sei immagini che esprimono la richiesta di grazie e favori.

Il volto raggiante è segno di amicizia e di benevolenza, ispira fiducia, apre il cuore a lieta speranza. Con linguaggio molto umano, il pio israelita chiede spesso al Signore di “rasserenare il suo volto”, di “non nascondergli il suo volto” (Sal 27,9), di non mostrarsi adirato. “Fa risplendere il tuo volto – supplica il salmista – e saremo salvi” (Sal 80,4); “risplenda su di noi la luce del tuo volto, Signore” (Sal 4,7).

Non soltanto Dio benedice l’uomo, ma anche l’uomo è chiamato a benedire Dio. Nei Salmi torna insistente l’invito: “Benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore. Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore” (Sal 134,1-2); “Benedite il suo nome, raccontate la sua gloria, a tutte le nazioni dite i suoi prodigi” (Sal 96,2-3). Il pio israelita comincia tutte le sue preghiere con la formula: “Benedetto sei tu Signore…”.

La benedizione che l’uomo rivolge al Signore è la risposta ai benefici ricevuti. È il segno che ha preso coscienza che tutto il bene viene da lui, che è dono suo.

La Bibbia parla continuamente di benedizioni di Dio e anche – molto raramente – delle sue maledizioni. Si tratta di un linguaggio umano per descrivere le conseguenze disastrose provocate non da Dio, ma dal peccato. Chi si allontana dal cammino della vita attira su di sé le peggiori sventure. Lo aveva già compreso il saggio Ben Sira: “Il male si riversa su chi lo fa” (Sir 27,27). Da Dio viene solo la benedizione.

Quale risposta ha dato il Signore alle suppliche del suo popolo?

Israele si attendeva dal Signore una benedizione, una pace, uno shalom molto “materiale”. Nella pienezza dei tempi Dio ha inviato la sua pace, suo Figlio, “egli è la nostra pace” (Ef 2,14). La sorpresa è stata così grande che ha fatto esclamare a Paolo: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo” (Ef 1,3) e a Zaccaria: “Benedetto il Signore Dio d’Israele che ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68).

“Dio l’ha mandato per portare la benedizione” (At 3,25-26). In lui tutte le maledizioni si sono trasformate in benedizione (Gal 3,8-14). Se in Cristo Dio ha rivelato il suo volto sempre benedicente, all’uomo non rimane che benedire sempre, anche i nemici: “Benedite e non maledite” (Rm 12,14) , “non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione” (1 Pt 3,9).

Seconda Lettura (Gal 4, 4-7)

4 Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5 per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. 6 E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7 Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.

In questo brano della Lettera ai galati Paolo ricorda la verità centrale del vangelo: dopo che Dio ha inviato il suo figlio, “nato da donna”, cioè, in tutto simile a noi, eccetto che nel peccato, noi possiamo chiamare Dio: “Abbà, padre!” (v.  6). Questa è la bella notizia!

Anche i pagani chiamavano Dio “padre di tutti gli uomini”. Cos’hanno di specifico i cristiani? Perché Paolo afferma commosso che ora il cristiano non è più schiavo, ma figlio e che può gridare: “Abbà”? Il Padre nostro è una preghiera che tutti gli uomini possono recitare?

A quest’ultima domanda tutti probabilmente risponderemmo “sì” e c’è un testo evangelico che giustifica questa risposta: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,44-45). La benevolenza di Dio non fa alcuna distinzione fra gli uomini, tutti sono suoi figli.

 È vero: Dio è padre di tutti gli uomini.

Ma quando un pagano e un cristiano invocano Dio padre non intendono la stessa cosa. Il pagano lo chiama padre perché è cosciente di aver ricevuto da lui il dono dell’esistenza. Il cristiano si sente figlio di Dio ad un altro livello: sa che oltre all’esistenza ha ricevuto da lui lo Spirito, la sua stessa vita divina. Per questo nei primi secoli la preghiera del Padre nostro era consegnata solo qualche giorno prima del battesimo, cioè, solo quando i catecumeni erano in grado di comprenderne pienamente il significato.

Anche questa lettura è legata al tema della festa della pace. Chi ha ricevuto lo Spirito e chiama Dio “Abbà” non può che sentirsi fratello di tutti gli uomini e divenire costruttore di pace.

Vangelo (Lc 2,16-21)

16 Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
21 Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

Il vangelo di oggi è la continuazione del brano letto nella notte di Natale. Accanto alla culla di Gesù compaiono nuovamente i pastori (vv. 16-17).

Seguendo l’annuncio ricevuto dal cielo, essi vanno a Betlemme e trovano Giuseppe, Maria e il bambino che giace nella mangiatoia.

Si noti: non trovano nulla di straordinario. Vedono solo un bambino con suo padre e sua madre. Eppure, in quell’essere debole, bisognoso di aiuto e di protezione, essi riconoscono il Salvatore. Non hanno bisogno di segni straordinari, non verificano miracoli e prodigi. I pastori rappresentano tutti i poveri, gli esclusi che, quasi per istinto, riconoscono nel bambino di Betlemme il Messia del Cielo.

Nelle raffigurazioni i pastori compaiono in genere in ginocchio davanti a Gesù. Ma il vangelo non dice che essi si sono prostrati in adorazione, come hanno fatto i magi (Mt 2,11). Sono rimasti semplicemente ad osservare – stupiti, estasiati – l’opera meravigliosa che Dio aveva operato in loro favore, poi hanno annunciato ad altri la loro gioia e quanti li ascoltavano rimanevano essi pure meravigliati (v. 18).

Nei primi capitoli del suo vangelo, Luca rileva spesso lo stupore e la gioia incontenibile delle persone che si sentono coinvolte nel progetto di Dio. Elisabetta, scoprendo di essere incinta, ripete a tutti: “Ecco cos’ha fatto per me il Signore!” (Lc 1,25); Simeone e la profetessa Anna benedicono Dio che ha concesso loro di vedere la salvezza preparata per tutte le genti (Lc 2,30.38); anche Maria e Giuseppe rimangono meravigliati, stupefatti (Lc 2,33.48).

Tutti costoro hanno gli occhi e il cuore del bambino che accompagna con lo sguardo ogni gesto del padre, rimane rapito di fronte ad ogni suo gesto e sorride, sorride perché in tutto ciò che il padre fa coglie un segno del suo amore. “Il regno di Dio appartiene a chi è come loro – dirà un giorno Gesù – e chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).

La prima preoccupazione dei pastori non è di tipo etico: non si chiedono che cosa dovranno fare, quali correzioni dovranno apportare alla loro vita morale non sempre esemplare, quali peccati dovranno impegnarsi ad evitare… Si fermano a gioire per ciò che Dio ha fatto. Dopo, solo dopo essersi sentiti amati sono in grado di ascoltare i consigli, le proposte di vita nuova rivolti loro dal Padre. Solo così si verranno a trovare nella condizione giusta per accordargli fiducia.

Nella seconda parte del vangelo (v. 19) viene sottolineata la reazione di Maria al racconto dei pastori: “Conservava tutte queste cose nel suo cuore e le meditava” (letteralmente: le metteva insieme).

Luca non intende dire che Maria “teneva a mente” tutto ciò che accadeva, senza dimenticare alcun particolare. E nemmeno vuole – come qualcuno ha sostenuto – indicare in Maria la sua fonte di informazioni sull’infanzia di Gesù. La portata teologica della sua affermazione è ben maggiore. Egli dice che Maria metteva insieme i fatti, li collegava tra loro e ne sapeva cogliere il senso, ne scopriva il filo conduttore, contemplava il realizzarsi del progetto di Dio. Maria (ragazzina di dodici-tredici anni) non era superficiale, non si esaltava quando le cose andavano bene e non si abbatteva di fronte alle difficoltà. Meditava, osservava con occhio attento ogni avvenimento, per non lasciarsi condizionare dalle idee, dalle convinzioni, dalle tradizioni del suo popolo, per essere recettiva e preparata alle sorprese di Dio.

Una certa devozione mariana l’ha allontanata dal nostro mondo e dalla nostra condizione umana, dalle nostre angosce, dai nostri dubbi e incertezze, dalle nostre difficoltà a credere. L’ha avvolta in un nimbo di privilegi che – secondo i casi – l’hanno fatta ammirare o invidiare, ma non amare.

Luca la presenta nell’ottica giusta, come la sorella che ha compiuto un cammino di fede non diverso dal nostro.

Maria non capisce tutto fin dall’inizio: si stupisce di ciò che Simeone dice del bambino, è quasi colta di sorpresa (Lc 2,33). Si stupisce come rimarranno stupiti gli apostoli e tutto il popolo di fronte alle opere di Dio (Lc 9,43-45). Non comprende le parole di suo figlio che ha scelto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,50), come i Dodici avranno difficoltà a capire le parole del Maestro: “Non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18,34).

Maria non capisce, ma osserva, ascolta, medita, riflette e, dopo la Pasqua (non prima!) capirà tutto, vedrà chiaramente il senso di ciò che è accaduto.

Luca la ripresenterà, per l’ultima volta, all’inizio del libro degli Atti degli apostoli. La collocherà al suo posto, nella comunità dei credenti: “Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Lei, la beata perché ha creduto (Lc 1,45).

Il vangelo di oggi si conclude con il ricordo della circoncisione. Con questo rito Gesù entra ufficialmente a far parte del popolo d’Israele. Ma non è questa la ragione principale per cui Luca ricorda il fatto. È un altro il particolare che gli interessa, è il nome che viene dato al bambino, nome che non era stato scelto dai genitori, ma che era stato indicato direttamente dal Cielo.

Per i popoli dell’antico Oriente il nome non era solo un mezzo per indicare le persone, per distinguere gli animali, per identificare gli oggetti. Era molto di più, esprimeva la natura stessa delle cose, formava un tutt’uno con chi lo portava. Abigail dice di suo marito: “Egli è esattamente ciò che indica il suo nome. Si chiama Nabal (lett.: “folle”) ed in lui non c’è che follia” (1Sam 25,25). Essere chiamati con il nome di un altro voleva dire impersonarlo, renderlo presente, avere la sua stessa autorità, richiamarne la protezione (Dt 28,10).

Tenendo presente questo contesto culturale, siamo in grado di capire l’importanza che Luca attribuisce al nome dato al bambino. Si chiama Gesù che significa: Il Signore salva. Matteo spiega: fu chiamato così perché salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).

Nel commento alla prima lettura dicevamo che il nome di Dio – YHWH – non poteva essere pronunciato. Ma senza nome si rimane nell’anonimato. Chi non conosce il nostro nome non può che instaurare un rapporto superficiale con noi.

Se Dio voleva entrare in dialogo con l’uomo doveva dirgli come voleva essere chiamato, doveva indicare il suo nome, rivelare la sua identità.

Lo ha fatto. Scegliendo il nome di suo Figlio, Dio ha detto chi egli è.

Ecco la sua identità: colui che salva, colui che non fa altro che salvare. Nei vangeli questo nome è ripetuto per ben 566 volte, quasi a ricordarci che le immagini di Dio incompatibili con questo nome devono essere cancellate.

Ora comprendiamo la ragione per cui nell’AT Dio non permetteva che fosse pronunciato il suo nome: perché solo in Gesù ci avrebbe detto chi era.

 È interessante notare chi sono, nel vangelo di Luca, coloro che chiamano Gesù per nome. Non sono i santi, i giusti, i perfetti, ma solo gli emarginati, coloro che sono in balia delle forze del male. Sono gli indemoniati (Lc 4,34); i lebbrosi: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13); il cieco: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18,38) e il criminale che muore in croce accanto a lui: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).

Lo ricorderà Pietro ai capi religiosi del suo popolo: “Nessun altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini, per il quale possano essere salvati”.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: Settimana News