Madre di Dio: “Prese la nostra polvere e le insegnò a benedire”
Non c’è forse, nell’anno, un periodo che straripa di “auguri” e di “oroscopi”, con l’accompagnamento musicale di botti e petardi, quanto il Capodanno.
Non mi è mai piaciuto tutto questo fracasso, che mi sembra una sagra della futilità, che facilmente percepisco come un “tanto rumore per nulla” per rifarsi al celebre titolo di un dramma di Shakespeare. Eredità pagana, da dove arriva la stessa parola “augurio”, che era un antico esercizio di “previsioni” derivato dall’osservare il volo degli uccelli o le viscere di animali.
A fare da controcanto provvedono, in modo molto più silente e discreto, le veglie di preghiera che si è preso l’abitudine di celebrare nella circostanza, per ringraziare per l’anno trascorso e impetrare l’aiuto di Dio per quello che comincia.
La nostra cultura è da sempre un inevitabile intreccio di materia pagana e materia cristiana: ne abbiamo testimonianza fin dai primi secoli, quando, per esempio, la predicazione di sant’Ambrogio metteva in guardia dal modo pagano, sfrenato e balordo, di celebrare il capodanno.
Di questo v’è una traccia vistosa nella liturgia ambrosiana che, nell’orazione dopo la Comunione per questa ricorrenza, ricorda che Dio «non vuole che i convitati alla sua mensa indulgano alle orge sfrenate del demonio», ma piuttosto che «perdano ogni gusto per i piaceri che danno la morte e si volgano invece con animo puro al banchetto della vita senza fine».
So che nella diocesi di Milano tale linguaggio suscita più di una critica, e lo capisco, ma alla fine credo che non sia male guardare un po’ la realtà in bianco e nero, e oltretutto la preghiera non condanna né la festa, né la gioia, né il piacere tout court, ma – e questo conta – denuncia come non graditi a Dio «i piaceri che danno la morte». Una parola che, su questo contrasto radicale, inviti al discernimento non guasta mai.
Quanto a trovare spunti per l’omelia la circostanza è sovraccarica di opportunità. Magari si potrebbe cominciare da un’assenza: non c’è una messa prevista per il “Capodanno”, che non pare sia una ricorrenza degna di una memoria liturgica, perché il calendario delle celebrazioni segue altri criteri.
Il 1° gennaio è più semplicemente l’Ottava del Natale, circostanza riservata alle grandi feste che sono talmente importanti da essere ricordate per otto giorni con l’ultimo meritevole di una particolare solennità. Per dare un contenuto specifico alla giornata, questa divenne la festa della Circoncisione, anche perché Gesù era stato circonciso l’ottavo giorno secondo la Legge.
Poi si pensò di dedicare la ricorrenza alla memoria della Madre di Dio, titolo che, nella devozione popolare, le fu presto attribuito anche prima che fosse ufficialmente formalizzato nel Concilio di Efeso del 431. La liturgia ambrosiana ne fa memoria nella VI di Avvento, chiamata “Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della B.V. Maria”, incentrata, come è giusto, sul vangelo dell’Annunciazione.
Poi Paolo VI stabilì che, dal 1° gennaio 1968, la Chiesa celebrasse a Capodanno la Giornata della pace.
Ho pensato che, in tale affastellamento di stimoli, sia il caso di trovare un centro che li attragga tutti, e che, alla fine, può rivelarsi il modo più bello e più cristiano di farsi gli auguri più seri, con la formula che ancora nei paesi anglosassoni sostituisce il termine con il “Dio ti benedica” (Godbless!), molto più ricco di senso. Ecco perché ho ripreso nel titolo un verso splendido della poetessa inglese Elizabeth Jennings.
“Benedire”
Le tre letture di oggi sono brevi, ma hanno il vantaggio di offrire un compendio essenziale di ciò che significa “benedire”. Il nucleo che genera tutto il discorso è già per intero nella prima lettura (Nm 6,22-27), nella formula con la quale il popolo di Israele viene benedetto: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace». Sono come tre zampilli gioiosi di una fonte unica che è il Signore.
La prima forma di benedizione è la garanzia di essere custoditi, un verbo che trasmette un senso di tranquillità e di sicurezza nelle varie situazioni di fragilità che sperimentiamo, verbo amato da Gesù, che lo ripete tre volte nel discorso d’addio (Gv 17,11.12.15), un verbo che evoca la tenerezza materna che Dio ha per noi, che siamo preziosi ai suoi occhi (cf. 1Pt 3,4).
Le altre due benedizioni sono centrate sul “volto”, che – come si sa – è la parte più caratteristica del corpo, quella in cui si rivela l’anima nella sua singolarità.
Lo splendore del volto è il sorriso di Dio, che prova gioia nel guardarci, e che suscita un sorriso di risposta: anche qui vengono alla mente gli sguardi che si scambiano mamma e papà con il loro bambino, che ride perché si sente amato.
Ma ancora più importante è che Dio ci benedica “rivolgendo a noi il suo volto”. Si ripete spesso che noi sentiamo di esserci solo se qualcuno ci guarda, e dunque guardandoci Dio ci fa esistere, ci fa sentire significativi.
Il risultato di tutto ciò, custodia e sguardi, è il dono dei doni, il bene supremo che è espressione e frutto della benedizione: la pace. Dove manca una relazione di volti, un atteggiamento di attenzione, un rispetto della persona, ogni guerra può scatenarsi, ogni conflitto può nascere, e tutto diventa un inferno.
Dio entra nel tempo
Il testo di Paolo (Gal 4,4-7), in una festa legata allo scorrere del tempo come il Capodanno, ci ricorda che c’è tempo e tempo, tempo vuoto e tempo pieno, e che il tempo non è solo né anzitutto lo scorrere di minuti, giorni, mesi e anni, ma il tempo si caratterizza da ciò che in esso accade, secondo la pagina magistrale di Qohelet 3,1-9.
Dall’apostolo veniamo a sapere che la «pienezza del tempo» si realizza quando accade l’evento più importante della storia: il Figlio di Dio che «nasce da una donna, nasce sotto la Legge», cioè entra nel mondo seguendo la via più normale, trasformando l’ordinario in straordinario. Perché lo scopo di questa sua venuta così “minima” è di riscattarci dalla Legge, e fare di noi, da sudditi che eravamo, dei “figli” e, di conseguenza, anche “eredi”, al punto che possiamo trattare Dio da Padre!
Non è richiesto alcun prezzo per questa incredibile promozione, ma tutto è “grazia”, tutto è “benedizione”. La grazia genera naturalmente la gratitudine, ed è questo l’atteggiamento che dovrebbe marcare tutti i giorni dell’anno se vogliamo fare della nostra vita una “benedizione”, regalando quello che di continuo gratuitamente riceviamo.
La gioia dei pastori e l’atteggiamento di Maria
Con il vangelo (Lc 2,16-21) incontriamo i pastori, che diventano a questo punto i nostri modelli. Ciò che vedono a Betlemme, dove si sono recati «senza indugio» («in fretta» recita l’originale) dopo aver ascoltato l’annuncio dell’angelo, è la scena che era stata loro predetta: «Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia». Guardano la scena e, nella loro memoria, tornano a cantare gli angeli con quelle parole gioiose e maestose che assicurano che quel bambino è il “Salvatore”, nato per portare «pace in terra agli uomini amati dal Signore».
Non so cosa può essere passato nella loro mente. La scrittura di Luca è così veloce, così essenziale che sembra un foglietto di note per registrare le cose più importanti. Ma se proviamo a trasferire nel nostro vissuto le reazioni dei personaggi che si muovono in questa storia, anche solo analizzando i verbi che descrivono i loro comportamenti, troveremo abbondante materiale di meditazione.
L’entusiasmo dei pastori, che vedono le grandi promesse di Dio portate al loro livello, materializzate in un bambino che potrebbe essere uno dei loro, diventa urgenza di comunicare ad altri quello che hanno visto. E il loro stupore contagia e dilaga.
Non c’è figura migliore per descrivere la missione del cristiano, che non dovrebbe dimenticare mai che a lui tocca, anche e soprattutto nelle circostanze minute del quotidiano, essere “angelo di pace”, cosa che è difficile da realizzare se dimentichiamo di nutrire lo “stupore” che dovrebbe caratterizzare la fede.
Come realizzare questo proposito? Questo è chiaro in Maria, che «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Ci vuole silenzio, ci vuole attenzione, ci vuole impegno per riandare con la mente, con il cuore, con l’immaginazione a quanto è accaduto a Betlemme secoli fa. Solo così il tempo viene “redento”, l’allora diventa “oggi”, come tutta la liturgia del Natale non si stanca di ripetere.
E così si arriva all’ultimo verbo di questo percorso: «I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro». Questa operazione la facciamo comunitariamente nella liturgia, in particolare nell’eucaristia, che diventa il luogo primario dove coltivare la memoria di questi eventi.
Si noti la sequenza dei verbi, che è cruciale, e che rischia di essere sottovalutata: udire e vedere! San Bernardo, e con lui molti altri, insiste sul fatto che l’ascolto viene prima ed è più importante della visione. È probabile che noi diamo più importanza al “vedere”. Era così anche ai tempi di Gesù (Mt 12,38). Vedere è più facile e fa più impressione. Ma se abbiamo perso l’abitudine di ascoltare nel silenzio, e leggere con attenzione la Parola, come Maria, non c’è molto da sperare per la pace. Rimane infatti vero, ieri come oggi, che «la fede viene dall’ascolto, e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Su questo c’è sempre un gran lavoro da fare.
Fonte – Settimana News | Commento a cura di Nico Guerini