Imparare a interrompere il fluire delle parole: è l’invito a noi rivolto in questo quarto giorno della novena. Zaccaria, come tutti quanti noi, pensa di accostare la vita, la storia, con un atteggiamento abituale e meccanico, proprio come il rito che stava officiando. Ma la vita non può essere ridotta a una stanca ripetizione di una rubrica in cui tutto è prescritto: è ben di più, è ben altro. Egli, come noi, ha bisogno di un ascolto più profondo, più prolungato; ha bisogno di diventare più attento: il silenzio cui verrà costretto per nove mesi non è una punizione inflitta alla sua incredulità, ma è il grembo in cui egli dovrà portare a maturazione l’annuncio che gli è stato consegnato. Non credeva che il suo disagio potesse stare a cuore a Dio: quanto per noi è motivo di vergogna è ciò attraverso cui Dio vuole liberarci. L’intervento di Dio si manifesta sempre o quando siamo preda della tentazione di arrangiarci da soli o quando ci si rassegniamo allo stato delle cose tanto da non attendere più nulla.
Forse abbiamo bisogno anche noi di restare muti quando la vita ci sorprende: ci sono doni che arrivano inaspettati e alla cui assenza coi siamo così abituati che quando arrivano li sentiamo addirittura come un fastidio. La vita va accolta facendo un passo in più, ma questo passo deve maturare nel silenzio.
Alla scuola del vangelo si apprende che il nostro è il Dio dei diseredati: persino una sterile, puntata a vista per il suo grembo infecondo, può ancora generare vita perché Dio è capace di tirar fuori vita anche nei luoghi della impossibilità conclamata. Dio ha la meglio sulla sterilità e sul silenzio.
A questa scuola si apprende poi che luoghi di culto e fede non necessariamente vanno a braccetto: pur nella cornice solenne del tempio, mentre si celebra la divina liturgia – come era accaduto a suo padre Zaccaria – non scontata è la fede. Anche lì può abitare l’incredulità se Dio lo si riduce all’ovvio e al risaputo. Dio è sempre altro, sempre oltre, mai riducibile a quello che di lui posso aver finora conosciuto.
A questa scuola si apprende ancora che si resta muti – cioè incapaci di leggere e dare un nome al reale – quando non si è più in grado di riconoscere l’opera di Dio.
A questa scuola si apprende poi che Dio lo si trova non nel ripetere stanco di tradizioni e abitudini ma nel riconoscere il modo nuovo in cui egli si rende presente. Il nome che verrà imposto al bambino, infatti, non si colloca nella linea del perpetuare un passato ma nella capacità di leggere il presente, nel leggere l’adesso di Dio: Dio fa grazia. Anche se non è affatto chiaro ciò che il futuro riserverà: che sarà mai di questo bambino? E penso all’incapacità di dare nomi nuovi al rendersi presente di Dio qui e ora, rischiando di riesumare un passato che non è più, cristallizzando modi antichi come modi perenni.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM