Enzo Bianchi – Commento al Vangelo di domenica 13 Dicembre 2020

L’evangelista Marco aveva fatto coincidere l’inizio del vangelo con l’apparizione di Giovanni il Battista, presentandolo in modo breve e sintetico (cf. Mc 1,1-8), senza insistere sui suoi insegnamenti, a differenza di Matteo e Luca (cf. Mt 3, 7-12; Lc 3,7-18). Per questo, nella terza domenica di Avvento, tradizionalmente dedicata al Battista, in questa annata B il lezionario ricorre al quarto vangelo, che ci offre una presentazione “altra” del Battista. Il brano liturgico unisce tre versetti tratti dal prologo e una pericope riguardante la confessione del Battista circa la propria identità.

Giovanni sta alla cerniera tra Antico e Nuovo Testamento, è l’ultimo dei profeti dell’antica alleanza e il primo a  proclamare il Vangelo (cf. Lc 3,18): è lui il sigillo della continuità della fede, è lui il testimone della Legge e dei Profeti, e nel contempo l’annunciatore e il testimone di Gesù Cristo. Tutto il Nuovo Testamento è concorde sulla sua identità e   sulla sua missione di precursore, ma il vangelo “altro” ce lo presenta con tonalità particolari, peculiari.

Giovanni entra in scena nel prologo del quarto vangelo. Dopo aver rivelato colui che era fin dal principio rivolto a Dio e messo in evidenza la contrapposizione tra la luce e le tenebre (cf. Gv 1,1-5), in modo brusco e inatteso il testo annota: “Venne un uomo mandato da Dio. Il suo nome, Giovanni”. Un uomo: Giovanni è un uomo, senza alcuna qualifica di appartenenza sociale o religiosa. Si tace il suo essere venuto al mondo da una famiglia sacerdotale, si tace la sua provenienza. Egli è un uomo presentato in modo spoglio, del quale importa solo dire che è “inviato da Dio” e, subito  dopo, “testimone “. Ecco la sua vera qualifica: un inviato, un profeta e un testimone, dunque servo solo di Dio. A lui   spetta di testimoniare riguardo alla luce venuta nel mondo, questa è la sua missione: chiamare tutti a credere alla luce e  a uscire dal dominio delle tenebre.

Nel quarto vangelo, inoltre, Giovanni si definisce ed è definito soprattutto in modo negativo, ossia in riferimento a ciò che non è: è inviato da Dio, ma non è la luce, bensì soltanto il testimone della luce. Perché questa insistenza? Perché ancora nell’epoca in cui questo vangelo è messo per iscritto vi sono alcuni che si rifanno al Battista, contrapponendolo a Gesù. D’altronde egli fu una figura profetica carismatica, con molto seguito e risonanza. Non si dimentichi che di lui abbiamo notizie da numerose fonti giudaiche, cosa che non si può dire di Gesù. Qui dunque l’evangelista sottolinea la differenza radicale tra il profeta, un uomo, e il Figlio di Dio venuto nel mondo.

E cosa dice di sé Giovanni, quando le autorità giudaiche gli inviano da Gerusalemme sacerdoti e leviti per interrogarlo?  Si tratta di una vera e propria delegazione inviata a causa del suo successo e dei discepoli suscitati dalla sua attività, il che ha destato preoccupazione e diffidenza nei suoi confronti. L’interrogatorio che gli viene rivolto è un vero processo. Non appena lo vedono, gli inviati gli chiedono in modo diretto e autoritario: “Tu, chi sei?”. La sua risposta svela i loro desideri e le loro intenzioni. Essi temono che Giovanni possa vantare pretese messianiche, ma egli puntualmente confessa: “Io non sono il Messia”. Nessun sogno da parte sua di essere un capo, tantomeno di essere l’Unto del Signore promesso al popolo di Dio attraverso i profeti. Egli risponde con parrhesía, liberamente, senza tergiversare. Se nel prologo l’evangelista aveva scritto: “Non era lui la luce”, qui Giovanni afferma di sé la medesima verità: “Io non sono il Messia”, colui che la tradizione giudaica definiva anche “luce” (Gv 8,12).

Giovanni non pronuncia mai una frase affermativa che contenga l’espressione “Egó eimi”, “Io sono”, perché questa  spetta a Gesù come autorivelazione. Sarà Gesù, a cominciare dal suo dialogo con la donna samaritana (cf. Gv 4,26), ad affermare a più riprese: “Io sono”, fino a rivelare con questa espressione la sua qualità divina, l’autorivelazione di Dio. Giovanni invece dice: “Ouk eimì”, “Io non sono”. Egli ha il compito di indicare non se stesso ma solo Gesù. Per questo dirà: “È lui del quale ho detto… ” (Gv 1,30); “ho contemplato lo Spirito discendere … e rimanere su di lui” (Gv 1,32); “è lui che immerge nello Spirito santo” (Gv 1,33), “è lui il Figlio di Dio” (Gv 1,34). Insomma, Giovanni non è il Messia, non è l’adempimento delle promesse sull’Unto figlio di David.

Vista questa sua modalità di rispondere, i suoi interlocutori lo incalzano con altre domande: “Chi sei, dunque? Sei tu Elia?”. Ed egli, di nuovo: “Non (lo) sono”. Elia era il profeta rapito in cielo (cf. 2Re 2,1-18), di cui Malachia aveva preannunciato la venuta alla fine dei tempi, quale inviato di Dio: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23). D’altra parte Giovanni vestiva come il profeta Elia: era dunque lui l’Elia redivivo? Ma egli nega quello che molti gli riconoscevano e che gli riconoscerà lo stesso Gesù: “Io vi dico che Elia è già venuto e  gli hanno fatto quello che hanno voluto, come sta scritto di lui” (Mc 9,13; cf. Mt 17,12).

Segue una terza domanda: “Sei tu il Profeta?”. Ed egli, ancora: “No”. Non è neanche il Profeta, cioè quel profeta uguale  a Mosè che Dio aveva promesso (cf. Dt 18,15) e che gli ebrei attendevano per gli ultimi tempi. Per la venuta del Messia, per il giorno del Signore erano attese queste figure profetiche, ma Giovanni non vuole essere identificato con nessuna di loro. In tal modo mostra chiaramente di essere un uomo decentrato, perché sa che al centro c’è il Cristo.. Evita persino di dire: “Sono”, perché non vuole che l’attenzione sia rivolta a lui. Dice semplicemente: “Io, voce di uno che grida nel deserto” (Is 40,3). In questo atteggiamento c’è la vera grandezza di Giovanni, che indica, rivela, invita, ma mai chiede di guardare alla sua persona. Come dirà più avanti, in riferimento a Gesù, lo Sposo: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30).

L’interrogatorio prosegue ad opera di alcuni farisei, i quali intervengono per chiedergli: “Perché dunque battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il Profeta?”. Battezzare, immergere, è infatti un segno, non una semplice abluzione. Mediante questo atto Giovanni chiede la conversione, il ritorno alle Signore, un comportamento etico e religioso “altro”, perciò insospettisce i farisei. Inoltre, andare a Giovanni, ascoltare la sua predicazione, ricevere da lui l’immersione, significava riconoscerlo come inviato da Dio: ma poteva esserci inviato da Dio senza l’autorizzazione dei sacerdoti e senza che i farisei, conoscitori della Legge, ne fossero al corrente? Ecco la pretesa, sempre presente nei capi religiosi, nelle autorità sacerdotali e negli esperti delle Scritture: controllare, autorizzare o impedire, essere sempre e solo loro a manifestare la volontà di Dio e a riconoscere i suoi interventi nella storia.

Il Battista risponde, sempre con franchezza: “Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dietro di me. A lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo”. Innanzitutto egli spiega il significato  del suo battesimo: è un’immersione nell’acqua, un segno, un gesto che prepara un altro battesimo, definitivo, che sarà dato da colui che egli annuncia e precede. Per rivelazione, Giovanni sa che quest’ultimo ormai è presente, è tra i suoi discepoli, uno che lo segue e che presto sarà manifestato. Nessuno lo conosce ma Giovanni lo annuncia: la sua rivelazione è prossima, sta per avvenire, e il Battista si definisce servo di questo veniente. Nel quarto vangelo va sottolineata la particolarità dell’annuncio del precursore: secondo le sue parole, il veniente è già presente, è sconosciuto ma sta alla sua sequela ed è più grande di Giovanni stesso, che per ora è suo maestro. Egli è dunque il testimone: ha una chiara e precisa conoscenza della propria missione, per questo non dà testimonianza su di sé, negandosi ogni funzione che possa entrare in concorrenza con Gesù, con la sua centralità e il suo primato. Per questo suscita domande con la sua sola presenza, con la sua vita, e chiede a tutti di fare discernimento sul Cristo che è già presente e va riconosciuto come il veniente che era alla sua sequela ma gli è passato davanti, perché era Figlio dall’eternità (cf. Gv 1,30).

Fonte: il blog di Enzo Bianchi

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