Con l’inizio del vangelo di Marco celebriamo questa seconda domenica di Avvento, meditando la figura di Giovanni Battista, che la Chiesa ortodossa venera come cugino in terzo grado di Gesù: essa ritiene infatti Maria, madre di Gesù, ed Elisabetta, madre del Battista, figlie di due sorelle, Anna ed Esmerìa.
Da “parente” di Gesù, Giovanni è l’immagine dell’invito a entrare in questa parentela stretta con il Figlio di Dio.
Non è un caso che Marco cominci il suo vangelo citando Isaia (40,3), perché la storia della salvezza ha radici lontane che vanno ricordate e questo piano di salvezza è strutturato da Dio in ogni sua parte, affinché tutto si compia e l’uomo possa nuovamente riappropriarsi di Dio, del suo Dio, del Dio vero.
«Voce di uno che grida nel deserto» (Mc 1,3): proprio dal deserto giunge l’annuncio che sta per accadere qualcosa di grande e lo stile di vita di Giovanni – vestito di pelle, che si ciba di locuste e miele selvatico – riporta alla primitività, alla primordialità.
Il deserto è ricominciare da capo, prendere una tela bianca per disegnare qualcosa di nuovo, o una tela vecchia per stenderci un fondo nuovo e ridipingere qualcosa di splendidamente più grande.
Il disegno vecchio simboleggia le nostre vite spente, vuote, mediocri, soprattutto piccole: soffriamo, incatenati dal mondo, nello sperimentare questa piccolezza che stona con la grandezza scritta nell’immagine e somiglianza col Dio vero che ci portiamo dentro. Vorremmo spaccare il mondo, ma l’unica cosa che rompiamo sono i timpani di chi ci sta vicino, con la nostra petulanza strutturale, che parte di default non appena cominciamo a relazionarci con qualcuno.
Giovanni predica un battesimo di conversione e di penitenza, ma non è lui quello che Israele sta attendendo: questo significa che mettersi di impegno e fare penitenza non basta; conversione e penitenza – esortazioni tipiche di Avvento e di Quaresima – non sono sacrifici che facciamo per far piacere a Dio, il quale non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma è la preparazione necessaria affinché possiamo essere pronti ad accogliere la grandezza dell’arrivo di Cristo.
Un affresco non può essere dipinto ovunque e il fondo va preparato meticolosamente, altrimenti la pittura si deteriorerà molto presto; così per la costruzione di una casa: non può essere edificata senza solide fondamenta. Entrare nel deserto è preparare il fondo per l’affresco e le fondamenta per la casa. Nel deserto non c’è niente, dunque, per edificare la vita nuova che nasce con Gesù: allora è necessario far sparire dalla vista le numerose immagini mentali ed esistenziali – veri e propri miraggi di felicità – che distolgono il nostro cammino dall’unica vera meta di pienezza. Ricordiamo che “idolo” deriva da eidon – aoristo del verbo greco orao, “vedere” – dunque l’idolo è una visione, un miraggio, un’immagine che esiste solo nel nostro cervello, che non ha corrispondenza nel reale. Buona parte dei nostri progetti di felicità – fermatevi un istante a pensare ai vostri – rientrano in questa categoria.
La conversione dell’Avvento è un volgere lo sguardo da queste visioni farlocche all’unica luce vera che il mondo ha conosciuto, conosce e mai ne conoscerà di altra. Per uscire dal nostro vuoto ed entrare nella pienezza abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio in persona, che arrivi e ci prenda col nostro consenso, così che in questa sequela noi possiamo tornare a Casa.
Da soli non possiamo farcela.
Da soli non ci salviamo.
Cogliamo l’occasione!
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli