Con la solennità di Cristo Re arriviamo al termine dell’anno liturgico A e celebriamo una delle pagine più universali della Scrittura in cui Cristo, Re dell’universo, giudicherà ogni uomo di ogni popolo e nazione, cristiani e non, nessuno escluso. Si parla, infatti, del «Figlio dell’uomo» che «verrà nella sua gloria» (Mt 25,31): in ebraico il termine “gloria” – qabod – indica il peso, la sostanza, il valore di qualcosa. La gloria di un uomo è il suo valore reale, non sempre visibile, specie nei “piccoli”. Alla fine dei tempi Gesù si mostrerà con tutto il suo peso e con tutta la sua realtà: Re di tutto il creato e di tutte le genti.
Alla sua destra staranno coloro che riceveranno in eredità il regno preparato fin dall’inizio della creazione, alla sinistra gli altri.
«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Notiamo subito che l’aggettivo dimostrativo «questi» rivolto ai «fratelli più piccoli» indica che siano lì presenti, alla vista di tutti: come trofeo per i caritatevoli, come condanna per gli egoisti e i malvagi.
Fuor di metafora, ciò che operiamo in vita ha effetti concreti su ogni piano di esistenza e ciò rimanda al mandato di Gesù agli apostoli: «Ciò che legherete o scioglierete in terra sarà legato o sciolto anche in cielo» (cfr. Mt 18,18).
I malvagi, a loro difesa partono – come sempre – all’attacco (di Dio), accusando il re di non essersi fatto riconoscere in questi piccoli; come dire: è colpa tua se non ti abbiamo soccorso, perché sei tu che non ti sei manifestato. Al pari del vangelo di domenica scorsa in cui l’ultimo servo che aveva nascosto il talento pensava male di Dio, anche questi che stanno alla sinistra del re fanno lo stesso: accusano Dio, in linea con l’Accusatore per eccellenza.
Questo discorso ci tocca molto da vicino perché, quasi quotidianamente, incrociamo qualcuno bisognoso di qualcosa – anche solo di una cortesia – e spesso ci tiriamo fuori dalla responsabilità di soccorrerlo, dicendo “non spetta a me, non è mia responsabilità” rimandandola a qualcun altro, Dio compreso, e rimanendo concentrati solo sui propri interessi. Così facendo non vediamo altro che noi stessi. È proprio per questo che quelli alla sinistra non scorgono la presenza del Re nei più piccoli.
Perché abbiamo difficoltà a rivolgerci al Dio vero e non ci accorgiamo di Lui quando ci passa accanto? Perché abbiamo le “linee occupate” dai falsi dei che assorbono totalmente la nostra esistenza e non ci fanno vedere il prossimo. La carità è uno slancio primario, non attende una giustificazione di diritto o di principio su chi o cosa sia giusto intervenire: agisce e basta, senza neanche attendere un grazie.
Non “si fa” la carità: “si è” carità.
Deus caritas est, titola la prima enciclica di Benedetto XVI: la carità ti dà un’identità, quella di figlio di Dio. La carità è come la luce per una lampadina: emettere luce identifica la lampadina; illuminare è la sua natura e la rende perfettamente collocata nella pienezza della sua esistenza. Così è per l’uomo: divenendo carità centra pienamente la sua natura e la sua vocazione, che si concretizza sempre in uno dei mille modi che ci sono per amare; e diventa simile a Dio, perché ne diviene strumento.
Ogni giorno il Padre ci chiama ad essere carità per qualcuno. Alla fine della vita non faremo il bilancio di quanti beni abbiamo accumulato, ma l’unica cosa che conterà sarà constatare se qualcuno è felice per causa nostra. Il resto non avrà peso.
Termina l’anno liturgico: Tempus fugit!
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli