Una fine incombente?
La paura di questi mesi, che ormai cominciano a essere tanti, sta generando una profonda inquietudine che in alcuni casi diventa attesa di una fine imminente. Le immagini delle bare, le notizie di amici o persone care ammalate, i bollettini di guerra quotidiani trasmessi dai mezzi di comunicazione, i notiziari che annunciano prospettive catastrofiche e le informazioni contraddittorie che si susseguono contribuiscono a generare questo clima da fine dei tempi. Del resto la storia ci insegna che nei tempi di pandemia, di crisi sociale, di guerre fratricide ritorna sempre una certa atmosfera millenarista, di cui una rappresentazione tipica è la danza della morte.
Sia la storia che la filosofia nonché il Vangelo ci insegnano però che la percezione della fine, l’aspettativa di una catastrofe imminente, può avere anche una effetto rigenerante. Trovarsi infatti davanti alla possibilità della morte, personale o degli altri, attiva dentro di noi un processo che ci permette di riconoscere e apprezzare ciò che è essenziale, ma soprattutto ci fa riscoprire la possibilità di trovare un senso alla nostra vita, un motivo e un modo per vivere.
La fine dell’anno liturgico
Provvidenzialmente, ci troviamo in questi giorni anche davanti a un’altra fine, quella dell’anno liturgico. Siamo stati accompagnati, come fa un pastore con le sue pecore a volte recalcitranti e dispettose, lungo il cammino di un anno, in cui siamo stati nutriti con l’erba nutriente e con l’acqua fresca, a volte senza grandi sentimenti di riconoscenza verso il pastore che non ci ha abbandonato e si è preso cura di noi.
Parole di Gesù sulla fine
Anche Gesù a un certo punto parla della fine e il modo in cui ne parla, per il tempo che stiamo vivendo, può essere particolarmente illuminante. La liturgia ci propone l’ultimo discorso di Gesù, nel Vangelo di Matteo, prima del suo ingresso nella passione. Anche nella vita, quando ci troviamo alla fine di un’esperienza, di una relazione o di una vita, si cerca di dire quello che è più importante. Per questo le parole che Gesù pronuncia in questo discorso hanno una valore particolarmente importante.
Le ultime parole di Gesù come maestro ai suoi discepoli riguardano paradossalmente gesti semplici, i gesti della quotidianità. Come se Gesù volesse dire che quello che conta è come abbiamo vissuto l’ordinarietà della nostra vita. Non se abbiamo fatto cose straordinarie, ma se abbiamo amato nella cose più banali che la vita ci chiede. Così in questo tempo di paura e di sgomento la domanda più importante ritorna a essere questa: quanto amore ci stiamo mettendo nelle cose ovvie della vita?
Le cose ovvie
Le cose ovvie sono quelle che il cuore non può non vedere. I gesti semplici sono quelli di cui in questo momento c’è davvero bisogno. La tradizione ha indicato questi gesti che Gesù presenta in questa pagina del Vangelo come opere di misericordia corporale. Mi ha sempre colpito però che quando Caravaggio rappresenta questa scena, in un dipinto geniale e spettacolare in cui, in un unico colpo d’occhi ritroviamo sintetizzati tutti questi gesti, aggiunge un’altra opera di misericordia, che non appare tra quelle suggerite da Gesù, ma che era diventata tradizionale per la fede cristiana: seppellire i morti. Caravaggio non poteva omettere quest’opera perché nel momento in cui dipinge, nella Napoli del Seicento, è quello di cui c’era più bisogno: Napoli era colpita dalla peste e la gente non riusciva a prendersi cura di tutti i cadaveri che rimanevano spesso per strada.
Alla fine dunque ci rendiamo conto che a volte i nostri occhi sono chiusi davanti a quello che la realtà ci stava chiedendo. I tempi di crisi purificano il nostro sguardo e possono aiutarci a capire che cosa conta veramente, per cosa vale spendere la vita.
Dov’è Gesù?
Eppure il modo in cui Gesù parla di questi gesti e ci invita a compierli non ha un valore puramente filantropico: qui non si tratta solo di essere uomini e donne che riconoscono la dignità dell’altro. C’è un altro passo che Gesù ci invita a fare e che probabilmente è il fondamento stesso del riconoscimento della dignità dell’altro: Gesù si identifica con il più piccolo. Andare a cercare colui che ha più bisogno, significa andare a cercare lui. Trovare chi ha bisogno di me in questo momento significa trovare Dio. Questi gesti hanno un valore profondamento teologico: è la fede vissuta, la teologia incarnata.
Dio si lascia trovare dunque nella piccolezza ed è bello riaffermarlo proprio nella solennità di Cristo Re dell’universo, perché contemplare questa piccolezza ci aiuta a purificare tutte le nostre idee di affermazione, di potere, di gloria e di successo. In una cultura del primato, della visibilità e della competizione, contemplare la figura del vero Re umile e povero è la guarigione più adeguata alle nostre idee malate di potere.
Quando mai?
La misericordia vera è quella inconsapevole, quella che diventa un modo di vivere, quella che non fa proclami o dirette facebook: nel brano del Vangelo di questa domenica, coloro che hanno compiuto gesti di misericordia non se ne sono neppure accorti. Per loro era normale, non c’è niente di straordinario. La cosa preoccupante però è che si può avere il cuore duro senza neanche accorgersene: anche coloro che non hanno compiuto gesti di misericordia, nella parabola, non se ne sono accorti. Hanno vissuto nell’indifferenza senza neanche percepire che c’era qualcosa di stonato nella loro vita: quando mai ti abbiamo visto? Sì, non hanno visto perché erano quotidianamente ripiegati su se stessi.
Il modo migliore per celebrare il Re è imitarlo: Cristo non solo si fa trovare nel più piccolo, ma è colui che ha vissuto pienamente l’attenzione alle esigenze dei più piccoli. È colui che accoglie, visita e si prende cura. E mai come in questo tempo abbiamo bisogno di vivere così, da cristiani!
Leggersi dentro
- Cosa dice di me il modo in cui vivo i gesti semplici della vita quotidiana?
- Il mio stile di vita è ispirato a questa pagina del Vangelo?
P. Gaetano Piccolo S.I.
Compagnia di Gesù (Societas Iesu) – Fonte