don Lucio D’Abbraccio – Commento al Vangelo del 15 Novembre 2020

Don Lucio D’Abbraccio

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Impieghiamo bene i nostri talenti

La seconda parabola del capitolo 25 del Vangelo di Matteo ci parla di un uomo che, partendo per un viaggio, consegna «i suoi beni», cioè un capitale enorme e di incalcolabile valore ai suoi servi – il talento, all’epoca di Gesù, equivaleva ai milioni di euro di oggi -, affinché durante la sua assenza lo custodiscano e lo facciano fruttare: «a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì». Egli è figura di Dio il quale, attraverso suo Figlio Gesù Cristo, mette fiducia nell’uomo e trova gioia nell’offrire gratuitamente a ciascuno di noi i suoi doni (cf Mt 10,8); e fa questo in modo personalizzato, tenendo conto di ciò che noi siamo in grado di accogliere. Il punto consiste precisamente nel riconoscere e accogliere con gratitudine i doni personali ricevuti da Dio, senza fare paragoni con quelli altrui, ma impegnandosi a rispondere di essi con tutta la propria vita: nessun altro può farlo per me!

I primi due servi impiegano i talenti ricevuti – non viene detto come – e ne guadagnano altrettanti; il terzo invece scava una buca nel terreno e vi nasconde il suo unico talento, o meglio quello che egli ancora considera come «denaro del suo padrone». «Dopo molto tempo» ecco che il padrone ritorna e chiama separatamente i servi per chiedere loro conto dell’uso dei talenti. Saputo del frutto ottenuto dai primi due, li loda nello stesso modo: «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Parole brevi ma estremamente significative, soprattutto alla luce della ricompensa promessa: entrare nella gioia del Signore significa infatti prendere parte al banchetto del Regno (cf Mt 8,11).

L’attenzione di Matteo, però, si concentra sul dialogo che intercorre tra il padrone e il terzo servo. Quest’ultimo comincia con il giustificarsi: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Perché dice che è duro? Il problema è perché questo servo si è costruito un’immagine perversa del suo padrone, come anche noi facciamo spesso con Dio. E sono le sue stesse parole a giudicarlo (cf Lc 19,22), a rivelare ciò che abita il suo cuore (cf Mt 12,34): «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Paura di Dio – una storia che incomincia con Adamo (cf Gen 3,10) -; paura di esporsi al rischio di mettere a frutto ciò che si è ricevuto; paura di accogliere il dono come tale, come qualcosa che abbatte la logica del mio/tuo: tutto questo, non la durezza del padrone, ha paralizzato il servo, lo ha reso «malvagio e pigro».

Infine, dopo aver ripreso le parole usate dal servo nei suoi confronti, il signore gli rivela qual era il suo vero desiderio: che l’altro si desse da fare, che impiegasse fattivamente il talento ricevuto e, così facendo, guadagnasse e salvasse la sua vita (cf Lc 21,19).

Sì, chi non impiega i propri doni finisce inevitabilmente per perderli e per sprecare la vita; questo è il senso del commento di Gesù: «a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha». È invece vigilante chi, con gratitudine, cerca di fare il miglior uso possibile del «poco» di cui dispone; e qualunque sia tale uso ce lo chiarirà Gesù stesso nella pagina del giudizio universale (cf Mt 25, 31-46).

Ebbene, in quale categoria di servi desideriamo essere per la venuta del Signore: «buoni e fedeli» o «pigri e malvagi»? L’apostolo Paolo ripete a noi ciò che scriveva ai cristiani di Tessalonica: «siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (II Lettura).

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