don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 15 Novembre 2020

Il pareggio è la vera sconfitta

La paura (t)remava contro al terzo servo. Gli tremava così contro che, una volta partito il suo padrone, decise di non giocarsi la sua percentuale di sogno a disposizione, tutto preso com’era dal digerire le sue paure. Poteva apparire ingiusto il comportamento del padrone – «A uno diede cinque talenti, a un altro due, ad un altro uno» -; per questo l’evangelista s’affretta a puntualizzare che diede «secondo la capacità di ciascuno». Ingiustizia è affidare a qualcuno più di quanto possa realmente fare, schiacciarlo di aspettative, scoraggiarlo con un’ansia-da-prestazione fuori misura. La faccenda di Cristo, invece, è onesta: “Devi ricevere cinque perchè puoi cinque, devi uno perchè puoi uno”. Cinque, due e uno, ai suoi occhi, hanno lo stessa quotazione. La generosità è proporzionata alla capacità, l’aspettativa è proporzionata a ciò che tu puoi: niente di meno, niente di più. Il massimo che è nelle tue facoltà. Poi Cristo, alla fine, non ha nessuna fretta di ritornare: sa bene che le persone si raccontano un poco alla volta, una paura alla volta. Per questo parte: perchè se non partisse, tutti si aspetterebbero che le cose accadano da sè, che la fortuna sorrida a tutti e non solo agli audaci, che il Cielo garantisca un assistenzialismo statale. Partendo, invece, accende la libertà dell’uomo, incentiva la sua creatività, gli dà l’occasione di mostrarsi per quello che è. Di diventare ciò che vale.

Messi con le spalle al muro, dunque, condannati ad essere liberi, ciascuno ragiona a modo suo. C’è chi sogna di vincere la partita: «Devi sapere che puoi vincere – scriveva R. Leonard -. Devi pensare che puoi vincere. Devi sentire che puoi vincere». E, per farlo, occorrerà mettere in conto il rischio anche di perderla: non c’è modo migliore di amare che rendersi conto che ogni cosa, ogni persona, può essere perduta. “Noi rischiamo – ragionano così i primi due servi -, magari perderemo, comunque sarà sempre meglio avere amato e perso piuttosto che non avere amato mai”. Il terzo servo, invece, sente di non avvertire nel cuore la voglia di vincere dei due di testa. Non sente, nemmeno, di possedere la forza di rischiare di perdere tutto che hanno i colleghi. Dunque s’accontenta di pareggiare i conti, il pareggio del bilancio è la sua aspirazione massima: «Andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone». L’Evangelo è diafano tant’è trasparente: “Va così la quaggiù tra gli uomini: chi vuole sempre vincere e chi teme di perdere. Poi ci sono quelli ai quali basterebbe un pareggio per prendere sonno senza calmanti”. Fate bene attenzione: un pareggio a fine partita, dopo che ci hai ficcato dentro l’anima tutta con le sue infinite sfumature, non è per nulla simile al pareggio di chi, per la paura di giocarsi la libertà, non è nemmeno sceso in campo ad allacciarsi gli scarpini. Quest’ultima razza d’omuncoli, al Dio di Gesù Cristo, arrecano prurito: per costoro la paura è come il traffico a Palermo, la coda sul grande raccordo anulare di Roma, la solita scusante a portata di mano. Una vita di riserva vorrebbero per accettare il rischio di giocare. Con Dio, poi, nessuna paura è più becera di questa: «So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra». “Sei un Dio ambiguo, incuti timore”, confessa sotto-sotto.

Ha bestemmiato? Magari fosse solo questo! Il fatto è che Gli ha detto, con parole sue, che è terrorizzato da Lui. Senz’accorgersi che anche i primi due hanno una paura matta, ma non di Dio: di perdere, rischiando di vincere. Per vincere quella paura, però, fanno entrare Dio nelle loro paure: “Se me li ha dati, Lui che mi conosce meglio di come mi conosca io, vorrà dire ch’è nelle mie possibilità giocarmeli”. E la paura tramuta in attenzione, che è il segreto di ogni vittoria: il contrario dell’attenzione è l’angoscia, che genera una distrazione assassina. Quella del terzo servo: non si accorge che, in amore, fare entrare qualcuno nelle proprie paure è molto più intimo che andarci a letto. Amore pretenzioso, però: «Servo pigro!». Tradotto: “Amico, nella vita e nell’amore non esiste pareggio. Hai perso tutto!”

Mi hanno sempre schifato quelle partitelle all’oratorio che finiscono sempre in pareggio: il nulla di fatto, il salomonico verdetto, la smanceria di non voler deludere nessuno. Questo, però, non è giocare: è uno stile così insulso da non riuscire più ad accendere la sfida. In amore, poi, Cristo ha già previsto in anticipo tutte le incognite, tranne la X. Al pareggio d’amore preferisce un tradimento riscattato: scoccia che sia così, ma è così. Le manine giunte, con la testina piegata a sinistra e le labbra che bisbigliano (col cuore spento) non valgono le lacrime di Pietro, punzecchiato dalla serva attorno a quel fuoco maledetto. Un fuoco benedetto.

La vera sorpresa, in realtà, è vedere accadere ciò che si sperava: l’amore che bussa alla porta. Un agguato di sorpresa, appunto: l’amore deve cogliere la realtà di sorpresa, altrimenti che amore è? Qualora, un giorno, provocasse del dolore, quella sofferenza altro non sarà «che la sorpresa di non conoscerci» (A. Merini). C’è una sfida in atto nel Vangelo di oggi, si parla di un amore che ti ha rubato il cuore: «Ecco lo sposo, andategli incontro!». Dio, stavolta, è un amante che gioca assai con le lancette dell’orologio: la sua sfida è quella d’insegnare a contare in modo nuovo. “D’ora innanzi – sembra dirci – il tempo non si misurerà più in minuti, ma in battiti, amici!” Quelle lampade assomigliano alle matrioske: dentro trattengono una storia. Dentro quella storia c’è un amore, in quell’amore è nascosto un tempo, dentro quel tempo c’è una luce: accenderla o spegnerla è l’affare serio di chi ha le chiavi di quella storia. L’attimo di verifica sarà sempre il ritardo: «Poichè lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono».

Chissà perchè quell’amore è in ritardo: forse per il traffico, per gli scherzi fatti trovare lungo la strada, per un filo d’agitazione da quietare. Oppure è uno di quei ritardi d’artista: “Se è in grado d’aspettarti – mi disse un giorno un uomo – allora ti ama per davvero”. L’amore, quand’è sfidato, si moltiplica, accelera: non c’è nulla nell’uomo come una sfida che faccia uscire ciò che c’è di meglio dentro lui. Le sfide poi – certi ritardi sono delle sfide anonime – ti aiutano a scoprire chi sei davvero: un amore, un amico oppure un compagno. “Ti amo” non è “ti voglio bene”, e quest’ultimo è l’opposto del “ti faccio un po’ di compagnia”.

Il Cristo è un ritardatario di quelli intelligenti: nella mia vita Gli è sempre piaciuto iniziare a prepararsi con largo anticipo in modo da aver poi il tempo per arrivare in ritardo (sulle mie tabelle di marcia). In realtà, invece, la sua è l’ora esatta: prima, forse, sarebbe stata amicizia, sarebbe bastato un attimo in più per farlo diventare una compagnia. E’ giunto puntualissimo nel suo ritardo: è amore. Saper giocare con il tempo è roba da avventurieri: un attimo prima o uno dopo tutto può cambiare, il destino stesso può mutare faccia. Saper cogliere l’attimo giusto per mettere dentro il cuore nel cuore è cogliere l’attimo della felicità. Per chi ama, c’è sempre una luce in fondo: basterà intravederne uno spicchio per continuare a vegliare.

Una luce, ma anche una voce: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!”» Per un innamorato, più inconfondibili delle impronte digitali ci sono le sfumature della voce. Quant’è bello, talvolta, interrompere una chiamata per dire: “Ma che voce bellissima che hai!” Una voce è quanto basta per tranquillizzare. È quanto basta per (ri)svegliare: basta il tuo nome, o un nomignolo, proferito da quella voce e ti verrebbe da indossarla più che d’ascoltarla. Per ascoltarla basta poco: un po’ di bene, da mescolarsi con l’affetto.

Per indossarla, invece, occorre avere l’olio del batticuore: farsi trovare pronti, disposti all’assalto, al risveglio, a buttarsi nella mischia. Perchè credere all’amore quando tutto è evidente, quanto tutti ti dicono ch’è palese, quando il vento ti accarezza la pelle con i petali di rosa è roba così semplice che sono capaci tutti. Crederci quando ti appare in ritardo, quando le lancette non passano mai, quando il tuo cuore dice che l’altro ha già imboccato altre strade, è materia soprannaturale: la voce, quando bisbiglierà ch’è giunta, troverà un batticuore pronto sul quale poggiare le sue sillabe. Dal quale alzarsi.

Mi piace questo Dio-in-ritardo, questi amori che esplodono di luce quando tutti li davano già per morti, questi cuori capaci di perdersi per volersi ritrovare: «Vegliate, dunque, perchè non sapete né il giorno né l’ora». Punto. Il batticuore, poi, non si vende: «No, perchè non venga a mancare a noi»(cfr Mt 25,1-13). Esatto: quell’olio è un prodotto artigianale, fatto in casa, realizzato a mano. Olio su misura: se non ce l’hai, nessuno potrà dartelo. Non è per ripicca: è che si parla di un amore che ti ha stregato il cuore. Un amore di fuoco che trasforma il ritardo in desiderio.

Commento a cura di don Marco Pozza

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