Anche questo brano abita il contesto escatologico e, seguendo la parabola delle dieci vergini della vigilanza, risponde anch’esso alla domanda sulla parusia del Signore e, implicitamente, sul suo regno e il suo giudizio. Allora Matteo riserva per il finale un messaggio riassuntivo. Lo affida a un genere parabolico, diremmo, di economia e finanza.
Quando tocca questo tasto, c’è da stare all’erta perché qui Gesù risulta sempre spiazzante. Pensiamo alla parabola degli operai dell’undicesima ora, pagati come i primi, al lavoro dal mattino; o a quella dell’amministratore infedele, lodato perché avveduto nella sua disonestà. Per evitare questo straniamento ricordiamo che la parabola, non essendo allegoria, non richiede che tutti i particolari del racconto combacino nell’interpretazione che se ne offre. Perché il suo spirito risiede nell’intercettare la curiosità dell’uditore, intrigandolo a darsi una risposta, ma a partire dalla dinamica interna del racconto, illuminato da qualche sobria analogia. È un frammento di mondo ordinario che ci apre uno squarcio sul mondo di Dio. Ed è un’arma da taglio: “Sono venuto a portare non pace, ma spada” (10,34), per lo scavo che fa nel cuore e per la conversione che genera.
La lettura tradizionale della parabola punta sulla valorizzazione del dono e dell’operosità richiesta, in un’accezione più o meno attualizzante dei talenti ricevuti, sul cui uso, o non uso, saremo giudicati. Quando però Gesù la indirizza al suo uditorio, ha altre risonanze, che possono ancora riguardarci.
Avverrà infatti, in questo mondo ordinario, come a un uomo, che in procinto di partire consegna le sue ingenti ricchezze a suoi tre servi. Tornato dopo molto tempo, li chiama al rendiconto. I primi due si sono conformati alle attese del loro padrone, fosse questi un onesto imprenditore o uno speculatore, non importa; ne hanno assimilato la forma mentis e non lo hanno deluso. Hanno, come lui, massimizzato il profitto, raddoppiando il capitale. Bene! Sono premiati.
Il terzo non ha peccato, non ha scialacquato il capitale del padrone come servo malvagio (cfr. 24,49), ma non si è sintonizzato sulle sue attese. Perché il padrone non si contenta di un risparmio conservativo, vuole di più; non uno schietto tanto-quanto! E per questo arriva ad accusarlo di doppia insipienza: non aver impreso a trafficare e, in alternativa, non aver affidato ai banchieri il capitale per farlo fruttare ad interesse.1 Ma un particolare decisivo è il ritratto che questo servo fa del padrone, a mo’ di autogiustificazione: “Signore, sapevo che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura…”. Si è rifiutato di trafficare la grande ricchezza messa nelle sue mani per paura di fallire e incorrere nel giudizio pesante di un padrone rapace.
Quello che Gesù così denuncia ai suoi contemporanei, è, ancora una volta, l’orientamento spirituale dei loro maestri e sacerdoti a vedere Dio come figura esigente, punitiva; centrati sulla denunzia ossessiva del peccato (semiticamente: fallimento) e paralizzati da un’impossibile impeccabilità, esprimono una lontananza da Dio che schiaccia sulla colpa, escludendosi dalla relazione fiduciosa con lui e con gli altri. Perché l’immaginario legato a questa immagine di Dio getta la sua ombra sui rapporti umani, rendendo difficile il perdono, mentre un velo di scetticismo e di non senso invade la vita.
Già all’inizio, sulla montagna, il Maestro aveva concluso il suo discorso, citando la sintesi delle Scritture data dal grande rabbi Hillel: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento”. Pur limpidamente sapiente, la formulazione al negativo puntava però al non fare il male, al non sbagliare; e Gesù l’aveva esattamente rovesciata: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (7,12), liberando e lasciando erompere la capacità positiva di amare che chiedeva ai suoi. Poi alla fine, nel Tempio, consumate le controversie scritturali, aveva stroncato questa concezione paralizzante: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare” (23,13).
Questa parabola anticipa così la grandiosa visione del Giudizio che subito segue: saranno respinti coloro che, pur non avendo fatto niente di male, non hanno fatto (25,45) il bene possibile. E allora l’immaginazione si può scatenare nell’infinita possibilità dell’amore: verso se stessi; verso gli altri; verso il pianeta; verso il Signore. Non solo positiva, ma di più, sovrabbondante, come la giustizia richiesta ai suoi “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (5,20).
L’estrema ricchezza dei talenti preziosi fiorisce da questo racconto come sovrabbondanza di Dio, spesa a piene mani, spesa sino alla missione del Figlio, che ci si dona e ci impegna alla risposta, anch’essa sovrabbondante, ottimizzata, della giustizia del regno, che lui chiama ora misericordia. Allora “nell’amore non c’è paura” (1Gv 4,18), perché “non sono venuto a condannare, ma a salvare” (Gv 12,47).
Commento a cura di Raffaela Brignola
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)
Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay