Il Giudizio
La scorsa domenica abbiamo detto che il giudizio prendeva diversi aspetti, oggi è presentato come un bilancio. Parabola è inquietante perché ciascuno può chiedersi se ha fatto sufficientemente fruttificare ciò che gli è passato tra le mani. Ricerca indefinita: teoricamente si può sempre fare di più di ciò che si è fatto. Questa parabola però, anche letta in maniera un po’ moralizzante, ci apre delle prospettive tonificanti sul valore della vita e della libertà.
La libertà dell’uomo. Il maestro se ne va e a voi “sbrogliarvela”. Il capitale di partenza che ci lascia è il mondo, la vita e le nostre attitudini particolari (ciascuno riceve dei talenti a secondo delle sue capacità). Siamo lontani dall’immagine di un Dio che prevede tutto, che comanda tutto, che telecomanda e ha tracciato tutti i nostri comportamenti. Nella nostra parabola l’uomo appare come il creatore della propria esistenza. A lui fare con ciò che egli ha. In realtà Dio non è partito così lontano, è Lui alla sorgente di nostri sforzi per far fruttare la nostra vita. Ma siamo noi, con la nostra libertà che facciamo agire Dio nella nostra vita, che lo facciamo o lo lasciamo creare. La libertà di Dio e la libertà dell’uomo non funzionano né in opposizione, né in giustapposizione, né in successione (Dio agirà fino ad un certo punto e l’uomo farà il resto). La libertà di Dio e la libertà dell’uomo agiscono l’una all’interno dell’altra: c’è l’alleanza, la comunione. Per noi tutto avviene come se tutto dipendesse da noi. Sant’Ignazio ha una celebre frase: “Fate tutto come se Dio non facesse niente e ricevete il risultato del vostro lavoro come se Dio avesse fatto tutto”.
Il valore della vita. Ciò che facciamo sulla terra ha valore per il Regno. Né un istante, né un’azione, nè un sentimento della nostra vita è perso. Noi ritroviamo tutta la nostra esistenza perché in Dio il passato non esiste. Non arriviamo nudi davanti a Dio; arriviamo con tutta la nostra vita e non è un esame di passaggio per entrare nel cielo. La sappiamo tutta intera trasfigurata. I talenti che abbiamo guadagnato il padrone non se li riprende (fine della parabola). Finalmente lavorando per Lui, lavoriamo per noi. L’idea che niente è perduto della nostra esistenza da un valore straordinario a tutti i momenti della nostra giornata e a tutte le nostre azioni. E’ esattamente il contrario di una fede che immobilizza. Anche se ciò che Dio ci promette sorpassa infinitamente ciò che possiamo produrre, è nella linea di ciò che noi produciamo: dire che noi facciamo “il cielo sulla terra” non è una frase pia. La vita eterna è già là: noi la costruiamo giorno per giorno.
Ho avuto paura
La parabola è certamente una esortazione all’attività, una affermazione del valore della vita e una consacrazione della libertà dell’uomo ma ancora di più. Il peccato fondamentale, all’origine del male che è nell’uomo è la sfiducia. La sfiducia che è l’esatto contrario della fede. La sfiducia che ci mette in difesa verso gli altri uomini, che ci vieta di accoglierli e di accettarli. La sfiducia che ci mette contro gli altri uomini riducendoli all’impotenza e magari asservendoli. Sfiducia che ci fa cercare le nostre sicurezze negli idoli (denaro, potere), sfiducia che ci arma contro Dio. Questo è l’atteggiamento del terzo servitore della parabola. Gli altri sono stati “fedeli” (la parola fedeli viene da “fides”). Ha creduto che Dio è duro, che minaccia l’uomo per assoggettarlo. Peccato contro lo Spirito Santo: dare a Dio che è l’amore il volto di un Dio perverso.
Colui che non ha niente. Non si tratta di chi è povero, di colui a cui la vita non ha dato niente ma di colui che per sfiducia ha rifiutato di fare qualcosa con ciò che aveva, di colui che non ha abbastanza creduto all’amore per mettersi all’opera, per fare il possibile. Non ha valorizzato il dono di Dio. Il dono di Dio muore tra le nostre mani se noi non facciamo niente. Non è necessario che qualcuno venga a togliercelo, abbiamo la possibilità di sterilizzarlo o di valorizzarlo.