Sono un frate domenicano. Docente di teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘santa Caterina da Siena’ a Firenze. Direttore del Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ a Pistoia.
Socio fondatore Fondazione La Pira – Firenze.
La parabola dei talenti è una tra le parabole del capitolo 25 del vangelo di Matteo situata nel contesto dell’ultimo dei cinque grandi discorsi che compongono il vangelo. E’ il discorso cosiddetto escatologico sulle realtà ultime della venuta del Signore Gesù alla fine dei tempi come sposo – la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) – e del giudizio sulla storia – il quadro del Figlio dell’uomo/re che separa, come fa il pastore, le pecore dai capri (Mt 25,31-46)-.
Messaggio centrale di questa parte del vangelo è l’invito a vigilare: la storia è orientata verso un incontro, il Signore viene come sposo e sarà il giudice della storia. E’ urgente rispondere all’invito di accogliere il suo regno. Già nel presente lo si accoglie nelle scelte della vita nel rapporto con gli altri: ‘ogni volta che avete fatto queste cose ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me’ (Mt 25,40).
L’intero capitolo è attraversato da uno sguardo al punto finale della storia: sarà un incontro di comunione e di amore. Per preparare la venuta del Signore è necessario coltivare l’attesa e ‘vegliare’: “Vegliate dunque perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,12).
Il discorso è anche segnato da un esigente richiamo: non ci si deve lasciar prendere dalla distrazione e dall’indifferenza perché sin d’ora è da rimanere svegli e operare.
La parabola dei talenti si situa in questo contesto. Potrebbe essere indicata come la parabola dei tre servi: il racconto vede tre momenti. Un padrone affida i suoi beni a tre suoi servi prima di partire per un viaggio. I tre si comportano in modo diverso durante l’assenza del padrone, infine – ed è la parte più estesa – i tre rendono conto di quanto hanno fatto quando il padrone ritorna.
Alla sua partenza Il padrone distribuisce i suoi beni ‘secondo le capacità di ciascuno’, non quindi operando discriminazioni e a tutti dà un numero diverso di talenti. E’ da tener presente che i talento al tempo di Gesù era un lingotto d’oro o d’argento di 36 chili: una ricchezza spropositata che era più abbondante del guadagno di un’intera vita. Il racconto converge verso la parte finale e si concentra sul contrasto tra la lode dei servi, che sono detti ‘buoni e fedeli’ perché hanno fatto fruttare il dono ricevuto e il rimprovero verso il terzo che è stato inoperoso e per paura ha nascosto sotto terra il talento a lui affidato.
Come tutte le parabole anche questa è da leggere non a partire dai singoli elementi ma nel quadro dell’intera struttura della narrazione con attenzione al punto focale dell’intero racconto. Il vertice va colto nel dialogo tra il padrone e il terzo servo: infatti i primi due sono elogiati ma il terzo viene rigettato non perché abbia compiuto qualcosa di sbagliato ma proprio perché non ha fatto nulla e non è stato creativo nel far sì che il dono ricevuto potesse moltiplicarsi in qualche modo. Soprattutto è rimasto chiuso in una condizione di paura e di sospetto verso il padrone. Agli altri servi è detto di ‘entrare nella gioia’. Ad essi il padrone si rivolge con l’espressione: ‘servo buono e fedele’. Gesù accompagna a scorgere che qui sta parlando del rapporto non con un padrone umano ma con Dio.
I talenti non sono le doti personali di ciascuno ma un dono dal valore quasi incalcolabile. Accogliere l’affidamento di un dono richiama a responsabilità. Ciò che il terzo servo non ha compreso è che l’autentica ricchezza è costituita dal rapporto con il padrone nel quale Gesù tratteggia il volto di Dio Padre. Egli rimane bloccato dalla paura, rinchiuso in un’idea preconcetta che lo rende incapace di agire: “So che sei un uomo esigente, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. Ha considerato il talento non come dono ma sis sente sotto il controllo di un padrone cattivo. Non comprende che il talento affidatogli è segno di una relazione a cui rispondere con il coinvolgimento di tutta la sua vita e che il desiderio di Dio è far entrare nella sua gioia. Non ha compreso che al cuore di quell’affidamento stava la chiamata a vivere un’esistenza nel servizio e nella creatività.
La parabola racchiude un messaggio che invita a considerare innanzitutto come Dio a tutti affidi un dono grande. Da qui sorge la responsabilità di essere fecondi nell’amore. L’attesa del ritorno del Signore non è motivo di paura ma di fiducia e di apertura. Quel che abbiamo ricevuto dev’essere portato ad altri, in atteggiamento di servizio. Nel tempo della storia i discepoli sono chiamati a vivere la fedeltà non secondo una religione della paura che porta all’immobilismo e al rifiuto di ogni cambiamento, ma ad entrare in una relazione di gioia che apre l’esistenza alla novità all’inedito e alla fecondità nell’amore.