La parabola dei talenti, presente alla fine del vangelo di Matteo, espone il giudizio di coloro che avevano una missione, ciascuno con risorse diverse. La vita cristiana è missione: nel Battesimo riceviamo da Dio l’identità, mentre con la Confermazione otteniamo gli strumenti, i doni dello Spirito, per poterla svolgere.
Il talento, nell’antichità, era un’unità di misura del peso molto grande; il termine è poi passato ad acquisire nel linguaggio il significato che conosciamo, ossia le qualità umane, le risorse personali in generale. Nella parabola i talenti non appartengono ai servi, bensì al padrone e simboleggiano le sue grazie, la sua parola, tutto ciò che ci viene dato con la fede. Dio non ci dà la sua parola perché la teniamo o la custodiamo per noi stessi, ma affinché la pratichiamo e la annunciamo.
Ogni cristiano è amministratore di ciò che riceve da Dio, nella misura e nella forma che gli è propriamente congeniale riguardo al ruolo che riveste nel mondo. Ciascuno di noi riceve talenti secondo la propria sagoma e la propria portata, ed essi sono saggiamente distribuiti in ogni persona affinché l’opera di Dio sia fatta a regola d’arte. Siamo tutti come bicchieri, di dimensioni e portata diversissime, ma tutti colmi di ciò che riceviamo da Dio. Perciò non esiste ingiustizia nella distribuzione delle risorse da parte del padrone.
I primi due servi virtuosi, alla consegna raddoppiata dei talenti si sentono dire dal padrone: «Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto» (Mt 25,21). Ecco, la fedeltà porterà al potere.
Il potere: una delle tre tentazioni ataviche nell’uomo che, insieme con il senso e il denaro rappresentano le tre concupiscenze che Gesù deve affrontare nelle tentazioni del deserto. Questa parabola afferma che l’uomo riceverà il potere: non attraverso i mezzi del mondo, ma per la fedeltà a ciò che gli è stato affidato. E questa fedeltà è da esercitarsi in tutte le vicende della vita, spesso inattese: un consorte malato, figli problematici, difficoltà di ogni sorta che, se affrontate con fedeltà ci renderanno potenti, perché il padrone renderà i servi proprietari di ciò che possiede, dicendo loro “prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Il problema del terzo servo è uno solo; pigrizia e malvagità sono, infatti, sintomi di un male più grande: egli ha un’idea sbagliata riguardo al padrone e pensa male di Dio; infatti dice: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura» (Mt 25,24-25). Il padrone rispondendogli non smentisce e nemmeno conferma; gli ricorda solamente che, sapendo queste cose, avrebbe dovuto comunque agire diversamente.
«Ho avuto paura»: avere un’idea sbagliata su chi sia Dio genera paura, paura del Padre, paura di chi ti ama fino a morire per te. E quando hai paura di Dio vai fuori strada rivolgendoti ad altri dei, che ti prenderanno la vita, berranno il tuo sangue e quello di chi ti sta vicino, per poi gettarti via come una cosa inutile. A ciascuno il compito di dare i nomi alle proprie idolatrie.
«A chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29). Esistono due categorie di persone: quelle che ringraziano e quelle che recriminano. Per alcune tutto ciò che ricevono è sempre troppo poco, non è mai abbastanza; persino il cielo intero non basterebbe, ed è per questo che a loro verrà tolto anche ciò che hanno, perché ce l’hanno ma non sanno di averlo.
Fidiamoci del fatto che Dio è buono, sa ciò che fa e quanto fare con ciascuno di noi. La fedeltà è abbandonarsi a Colui che ci ama sopra ogni cosa.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli