Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 15 Novembre 2020

La parabola dei talenti, presente alla fine del vangelo di Matteo, espone il giudizio di coloro che avevano una missione, ciascuno con risorse diverse. La vita cristiana è missione: nel Battesimo riceviamo da Dio l’identità, mentre con la Confermazione otteniamo gli strumenti, i doni dello Spirito, per poterla svolgere.

Il talento, nell’antichità, era un’unità di misura del peso molto grande; il termine è poi passato ad acquisire nel linguaggio il significato che conosciamo, ossia le qualità umane, le risorse personali in generale. Nella parabola i talenti non appartengono ai servi, bensì al padrone e simboleggiano le sue grazie, la sua parola, tutto ciò che ci viene dato con la fede. Dio non ci dà la sua parola perché la teniamo o la custodiamo per noi stessi, ma affinché la pratichiamo e la annunciamo.

Ogni cristiano è amministratore di ciò che riceve da Dio, nella misura e nella forma che gli è propriamente congeniale riguardo al ruolo che riveste nel mondo. Ciascuno di noi riceve talenti secondo la propria sagoma e la propria portata, ed essi sono saggiamente distribuiti in ogni persona affinché l’opera di Dio sia fatta a regola d’arte. Siamo tutti come bicchieri, di dimensioni e portata diversissime, ma tutti colmi di ciò che riceviamo da Dio. Perciò non esiste ingiustizia nella distribuzione delle risorse da parte del padrone.

I primi due servi virtuosi, alla consegna raddoppiata dei talenti si sentono dire dal padrone: «Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto» (Mt 25,21). Ecco, la fedeltà porterà al potere.

Il potere: una delle tre tentazioni ataviche nell’uomo che, insieme con il senso e il denaro rappresentano le tre concupiscenze che Gesù deve affrontare nelle tentazioni del deserto. Questa parabola afferma che l’uomo riceverà il potere: non attraverso i mezzi del mondo, ma per la fedeltà a ciò che gli è stato affidato. E questa fedeltà è da esercitarsi in tutte le vicende della vita, spesso inattese: un consorte malato, figli problematici, difficoltà di ogni sorta che, se affrontate con fedeltà ci renderanno potenti, perché il padrone renderà i servi proprietari di ciò che possiede, dicendo loro “prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Il problema del terzo servo è uno solo; pigrizia e malvagità sono, infatti, sintomi di un male più grande: egli ha un’idea sbagliata riguardo al padrone e pensa male di Dio; infatti dice: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura» (Mt 25,24-25). Il padrone rispondendogli non smentisce e nemmeno conferma; gli ricorda solamente che, sapendo queste cose, avrebbe dovuto comunque agire diversamente.

«Ho avuto paura»: avere un’idea sbagliata su chi sia Dio genera paura, paura del Padre, paura di chi ti ama fino a morire per te. E quando hai paura di Dio vai fuori strada rivolgendoti ad altri dei, che ti prenderanno la vita, berranno il tuo sangue e quello di chi ti sta vicino, per poi gettarti via come una cosa inutile. A ciascuno il compito di dare i nomi alle proprie idolatrie.

«A chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29). Esistono due categorie di persone: quelle che ringraziano e quelle che recriminano. Per alcune tutto ciò che ricevono è sempre troppo poco, non è mai abbastanza; persino il cielo intero non basterebbe, ed è per questo che a loro verrà tolto anche ciò che hanno, perché ce l’hanno ma non sanno di averlo.

Fidiamoci del fatto che Dio è buono, sa ciò che fa e quanto fare con ciascuno di noi. La fedeltà è abbandonarsi a Colui che ci ama sopra ogni cosa.

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli


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