Il vangelo sembra contraddirsi. Da un lato, infatti, presenta tre esigenze radicali della sequela: la rottura con il mondo familiare e con la lealtà al proprio “io”, il caricarsi della croce dietro Gesù, la rinuncia ai propri averi. E con un tono imperativo, di immediatezza. Chiede di viverle qui e ora. Dall’altro c’è l’invito a sedersi – cioè a prendere tempo – e a calcolare se si hanno i mezzi – ma non si deve rinunciare ad essi? – e le forze – ma non si deve contare solo sul Signore?
La contraddizione comincia a risolversi se si comprende che è in gioco qui una questione di amore. Il centro della Legge è “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27). Il Dio di Gesù chiede un amore totale: tutte le dimensioni dell’essere umano sono orientate a lui e da lui ora riplasmate e ridefinite. Gesù è colui che per primo e totalmente ha vissuto un tale amore. Per questo nella sequela, conformandosi al suo pensare e agire, impariamo ad amare così. O, forse meglio, accettiamo di venire formati e plasmati dall’amore di Dio. Per questo occorre essere liberi da ogni legame (e si possono amare i beni e porre in essi la propria fiducia e speranza molto più che nei legami familiari) per potersi legare a Gesù e in lui amare, unificati e indivisi, Dio. Dio in Gesù chiede all’essere umano un coinvolgimento totale e pieno, un coinvolgimento che abbraccia mente e cuore, affetti e pensieri, interiorità ed esteriorità.
Nel testo citato di Lc 10 l’unico verbo “amare” regge sia Dio che il prossimo: che cosa significa? Che ritroviamo gli altri da amare ora come dono che riceviamo dal Signore, li accogliamo come fratelli e sorelle nella fede e nell’umanità. Esito dell’amore totale per il Dio di Gesù è imparare ad amare gli altri esseri umani come fratelli e sorelle, superando quelle barriere e quelle classificazioni con cui dividiamo il mondo e creiamo cerchie di vicinanza o lontananza, di amicizia o inimicizia, se non di indifferenza.
Capiamo così il senso dei due proverbi inseriti al cuore delle esigenze evangeliche. La radicalità della sequela si costruisce sulla radicalità dell’autoriflessione. Se si ama con il cuore, la mente e l’anima, occorre conoscere queste realtà per seguire il Signore. Non si può essere come alienati e resi estranei ad esse, quasi che si viva sulla superficie di se stessi. È un processo di conoscenza di sé non circoscritto al primo sì, ma continuo nel tempo alla luce della parola di Dio. Ci si interroga sulla disponibilità interiore a seguire il Signore e ad abbandonarsi a lui nelle diverse vicende. Quanto realmente contiamo sui mezzi che il Signore ci offre per costruire la vita non solo all’inizio della chiamata ma nel tempo della durata? Nella lotta che contraddistingue la vita cristiana contro i cattivi pensieri che lucidità c’è sulla nostra vulnerabilità e debolezza? Che conoscenza c’è delle nostre fragilità? E quale accettazione di esse?
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