Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 30 Ottobre 2020

Questa volta per compiere il segno di guarigione Gesù non chiede fede da parte del malato, non chiede nulla, neanche una richiesta da parte sua, neanche la sollecitudine di altri che intercedano per lui.

Semplicemente accoglie colui che sta “davanti a lui” (v. 1), lo vede, prende atto della sua presenza, se ne lascia interpellare, come il buon samaritano della parabola di Lc 10,29-37, e accetta di diventarne responsabile. Gesù, così, accetta che l’altro uomo che sta davanti a lui gli cambi qualcosa nella sua vita, lo faccia diventare responsabile, custode di lui, lo faccia intervenire a partire dal suo stesso esserci.

A volte il fratello, la sorella non chiedono niente, ma solo stanno davanti a noi nella loro malattia, nel loro bisogno; essi, con il loro semplice esistere ed esserci, ci chiedono di diventare responsabili di loro. E questa responsabilità ci può dare fastidio, questo diventare custodi dell’altro può urtarci ed essere da noi sentito come inaccettabile. Non era stato forse questo il peccato primo di Caino, che poi si espresse nell’omicidio di lui? Caino, infatti, così disse a Dio: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9).

Il fratello, la sorella, ci cambiano qualcosa nella vita anche se non chiedono nulla, ma il fatto che con il loro semplice esistere ci rendano responsabili di loro inocula una novità nella nostra vita, ci pone esigenze che forse prima non conoscevamo, ci interroga su dei punti di noi stessi che prima forse non avevamo neanche sfiorato, ci interrogano sulla nostra stessa identità, la quale è sempre un’identità relazionale, un’identità che si costruisce soprattutto a partire dal rapporto con l’altro: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.

Dunque il fratello solo per il fatto di essere venuto al mondo ci cambia, ci fa essere diversi, incide sulla nostra identità, e laddove vi è incertezza sulla propria personale identità questa presenza altra che ci cambia può essere sentita come una minaccia al proprio stesso esserci, alla propria identità, all’essere se stessi, e dunque al proprio vivere.

Ecco allora che può scatenarsi il rifiuto, il rigetto del fratello, della sorella non tanto per ciò che chiede, perché magari, come quest’uomo malato di idropisia, non chiede nulla, ma semplicemente perché esiste.

Gesù, invece, si lascia interpellare, si pone in ascolto del grido inarticolato di quest’uomo malato, la cui sofferenza è di per se stessa grido al Signore, come lo era stata la sofferenza degli ebrei schiavi del faraone in Egitto (cf. Es 3,7); Gesù si pone talmente in atteggiamento di accoglienza e di ascolto di quest’uomo che coglie il grido muto della sua sofferenza e se ne lascia toccare, ferire, fino a intervenire: Gesù agisce per compassione (cf. Lc 10,33), perché fa entrare dentro di sé la sofferenza dell’altro e accetta che questa sofferenza diventi parte della sua stessa vita e la cambi.

Così Gesù agisce anche nei confronti di ciascuno di noi, così Gesù si fa compagno del nostro cammino e si prende carico della nostre sofferenze. Così egli ci rivela che la vera vita per noi tutti è diventare custodi del fratello e accoglierci, come egli ci ha accolti, come un dono prezioso l’uno per l’altro.

Sorella Cecilia


Fonte

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