Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 1 Novembre 2020

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La forza trasformativa delle beatitudini

“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte …” (Mt 5,1). La pagina delle beatitudini, testo evangelico che ogni anno ritorna nella festa di Tutti i Santi, presenta anzitutto lo sguardo di Gesù, sguardo che non solo vede l’invisibile, ma che vede diversamente ciò che gli altri vedono. Il suo sguardo, che trova eloquenza nelle beatitudini, riabilita condizioni ritenute indegne, umilianti, segnate da vergognosa debolezza, nella società del tempo. Sia l’umano che il divino sono visti da Gesù con un occhio particolare, che sconvolge gli sguardi abituali tanto sull’uomo quanto su Dio. Dirà Paolo, dopo aver conosciuto l’accecamento che lo renderà capace di vedere, dopo aver riconosciuto che la luce che lo guidava non era che tenebra e che il suo sguardo era inficiato da zelo cattivo: “Dio ha scelto ciò che è stolto per il mondo per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che è debole per il mondo per confondere i forti; Dio ha scelto ciò che è ignobile e disprezzato per il mondo, ciò che è nulla, per ridurre al nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28). La logica della croce, della morte e resurrezione, ancora invisibile agli occhi dei più, è già operante nelle parole e nella vita di Gesù ed emerge nelle beatitudini.

Matteo pone le beatitudini agli inizi del ministero di Gesù. E tuttavia simili parole sembrano più adatte a un momento inoltrato della vita di un uomo, perché sono il frutto di una lunga maturazione, di un faticoso e soprattutto profondo lavoro interiore. Ma Matteo le colloca all’inizio, quasi a farne una sorta di discorso programmatico. In ogni caso esse sono il precipitato di un lavorìo interiore, di riflessione, di osservazione dell’umano, di lettura di sé, di comprensione di Dio, di esercizi di traduzione in pratica della figura di Dio appresa dalle Scritture, esercizi di collegamento tra la volontà di Dio che emerge dalla meditazione delle Scritture e la vita quotidiana delle persone, i pescatori e le massaie che compariranno nelle sue parabole, i vignaioli e i contadini che faranno parte delle sue narrazioni di Dio, i malati fisici e psichici verso i quali egli mostrerà un’attitudine che non si inventa sul momento ma che nasce da lunga maturazione. Le sue parole mostrano anch’esse di aver conosciuto una lunga e nascosta gestazione, gestazione che anche lo scritto evangelico non rende visibile, o meglio consente solo di indovinare perché non ci dice nulla o quasi nulla su ciò che Gesù fece e visse prima del suo ministero pubblico. Ponendo le beatitudini all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, Matteo ci suggerisce il formarsi dell’umanità di quest’uomo nel tempo che ha preceduto gli eventi di cui parlano le narrazioni evangeliche.

Gesù parla in qualità di sapiente, egli insegna, dice Matteo (5,2), parla come un maestro. Le beatitudini sono anzitutto un insegnamento. L’insegnamento è trasmissione di vita e nasce da un’esperienza. Gesù comunica ai discepoli ciò che ha vissuto, dove vissuto significa non semplicemente accaduto, ma elaborato, rivissuto interiormente, pensato e posto davanti a Dio. Il vissuto non è veramente tale se non è rivissuto nel cuore, nella mente, nell’animo. Non basta piangere o essere perseguitati per essere beati. Per dire che sono “beati” i poveri o i miti o i perseguitati e per aggiungere la motivazione, “perché”, occorre avere vissuto non solo esteriormente, ma anche interiormente. L’uomo non vive di fatti ma di storia, non vive di cronaca ma di narrazione. Dire “beati” e aggiungere “perché” implica un lavoro interiore e spirituale che ha forgiato una competenza, un sapere e una sapienza. Ha forgiato un uomo libero, che sa fare qualcosa di positivo anche di situazioni di pianto, di dolore, di fatica.

Insegnare è indicare una via da seguire, da percorrere. E così le beatitudini sono un invito e un incoraggiamento: voi poveri, voi misericordiosi, voi afflitti, voi perseguitati, voi miti, non scoraggiatevi, ma camminate, proseguite il cammino, andate avanti, tenete fisso lo sguardo alla meta, lasciatevi attirare da ciò che vi sta davanti e non fatevi frenare da ciò che sta dietro, camminate facendo fiducia a queste parole di Gesù che aprono un orizzonte di vita. Questo cammino di felicità è il cammino verso l’essenziale, verso la semplicità. Fr. Roger di Taizé ha ben espresso il carattere proprio di questo cammino delle beatitudini: “Ciò che rende felice un’esistenza è avanzare verso la semplicità: la semplicità del nostro cuore e quella della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità: l’umile dono della propria persona rende felici”.

Insegnare è anche promettere. È mettere avanti un futuro, è offrire le condizioni ora per ciò che potrà essere vero domani. Le beatitudini, come promessa di felicità, sono invito alla bellezza, a lavorare la propria vita fino a farne un capolavoro. Ma ancor più che di felicità, l’uomo ha bisogno di senso, e le beatitudini, come promessa, attestano che si può trovare senso anche nell’assurdo del dolore, che il mondo può essere vissuto anche nell’invivibile della persecuzione, della violenza subita, di situazioni di guerra e non di pace. Rivelazioni del vissuto di Gesù, le beatitudini diventano rivelazioni della vita possibile a noi se troviamo radici nell’umanità di Gesù. Allora capiamo che anche persecuzione e afflizione, assenza di pace e mancanza di giustizia, bruttura e assenza di santità, sono situazioni che possono aprire alla beatitudine insegnando a operare la pace, a fare misericordia, a vivere nella mitezza.

Le beatitudini ci insegnano che vi è anche un insegnamento nella realtà, ci insegnano a imparare dalla realtà stessa, anche dalle realtà dolorose e amare, come spesso ha fatto Gesù stesso, l’uomo delle parabole. E come i poeti capiscono meglio di teologi ed esegeti. Scrive una grande poetessa:

L’acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L’amore, da un’impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.

L’autorevolezza dell’insegnamento di Gesù non è un sapere astratto, ma comunicazione di un vissuto, non è un insegnamento su Dio, ma è un rivelare qualcosa di Dio, non è un parlare estrinseco all’uomo, ma l’indicazione di una via percorribile da parte dell’uomo. Le beatitudini sono una parola che sintetizza chi è Gesù stesso (Gesù è l’uomo delle beatitudini; la prima chiave di lettura delle beatitudini è cristologica), ma sono anche una parola che rivela chi è Dio (Gesù si esprime con estrema autorevolezza su Dio: egli afferma che il Regno dei cieli, cioè di Dio, appartiene a chi è povero in spirito e a chi è perseguitato per la giustizia, dice che i puri di cuore vedranno Dio, che gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio). E infine, le beatitudini svelano anche qual è la via per un’umanità umanizzata, un’umanità capace di narrare Dio: povertà in spirito, mitezza, misericordia, purezza di cuore, pacificazione, ricerca di giustizia fino ad assumere e integrare anche la persecuzione e la sofferenza a causa della giustizia. In queste parole, in cui Gesù proclama beato chi è mite e chi è misericordioso, vi è la sapienza di chi sa che non è sufficiente compiere un gesto di mitezza o di misericordia, ma che occorre perseverare nella mitezza, abitare la misericordia, porre la dimora e abitare queste realtà stabilmente per conoscerne la beatitudine.

Occorre amarle e restarvi fedeli, ostinatamente, anche quando sembrano perdenti, sprecate, improduttive, sterili. Dietro le beatitudini c’è l’esperienza di chi è giunto a comprendere che queste realtà bastano a se stesse, hanno valore in sé, indipendentemente da ciò che mutano negli altri e nella realtà. Qui si nasconde la loro forza trasformativa: ci insegnano a diventare misericordiosi, miti, poveri in spirito, ad assumere l’afflizione e la persecuzione come momenti di sequela di Gesù. Le beatitudini ci ricordano che l’unico potere che abbiamo non riguarda il cambiare gli altri, ma noi stessi. Che è lo stesso che dire con san Francesco: “Predicate sempre l’evangelo, e se necessario, anche con le parole”. O ancora: che colui che evangelizza è chi vive l’evangelo in prima persona. Purezza di cuore e povertà in spirito, mitezza e misericordia sono fonte di beatitudine perché trasformano chi le vive e persevera in esse. Le parole delle beatitudini può dirle solo chi questo lavoro profondo lo conosce perché l’ha fatto. Per questo forse le beatitudini spesso ci paiono così belle e così inattingibili, così alte e così distanti, perché spesso siamo estranei al lavoro che le ha fatte nascere. Le beatitudini sono il frutto della purificazione dello sguardo del cuore che sa vedere anche situazioni di vita assolutamente penose e dolorose non più solo come realtà da fuggire o da temere, ma come occasione di umanizzazione e di vita evangelica. Esse nascono dal silenzio e dalla sofferenza, dalla lotta interiore e dalla solitudine. Sono parole la cui potenza è nascosta nella loro verità inesauribile: verità provata da Gesù stesso che ha vissuto in sé ciò che ora può proclamare come autorevole e vero per ogni essere umano.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose