«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,37-38). Questo è il grande, primo comandamento.
Domenica scorsa i farisei si erano uniti agli erodiani per far fronte comune contro Gesù; questa volta si alleano con i sadducei, frangia sacerdotale aristocratica e politicamente meno integralista di loro, che non credeva alla resurrezione; ricordiamo che politica e teologia costituivano un corpo unico, poiché la legge, per gli ebrei, era basata sul Pentateuco.
La domanda rivolta a Gesù era tipica delle discussioni rabbiniche, e veniva anche posta in questo modo: “Sai dire tutta la legge di Dio stando su un piede solo?” Il rabbino, assumendo quella posizione, rispondeva: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”; il testo originale del Deuteronomio dice «con tutta la tua forza» (Dt 6,5), enunciato ripetuto da un ebreo osservante almeno tre volte al giorno.
Questa è la luce centrale, la colonna di tutta la religione ebraica e, ovviamente Gesù, risponde correttamente; ma, come spesso avviene, compie un salto successivo, perché il secondo comando nessuno gliel’ha chiesto ed Egli specifica che è simile al primo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,39). Simile significa che è importante quanto l’altro, sovrapponibile. Il salto compiuto da Gesù è che, di fatto, amare Dio e amare il prossimo sono lo stesso identico atto, perché amare Dio non può non tradursi in atti d’amore verso il prossimo.
Spesso la religiosità umana si ferma al solo culto divino, che in questo modo diventa idolatrico, perché, se non sfocia nell’amore del prossimo, rimane una semplice pratica burocratica espletata in ambito sacro, al fine di “sistemare” le faccende riguardanti l’anima. E Dio diventa una delle tante caselle da sistemare nella propria vita, la quale deve procedere secondo i progetti personali. Ciò rimanda al peccato di Saul – deprecato dal profeta Samuele – che ebbe con Dio un atteggiamento di questo tipo (la vicenda è narrata nel primo libro di Samuele).
Il secondo comando parla della misericordia, il frutto più grande e autentico della relazione con Dio. Se viene meno, non esiste un rapporto autentico con Dio. Va inoltre sottolineata la ripetizione della parola «tutto» nel primo comando: amare o è tutto o non è. Si potrebbe mai immaginare la dichiarazione d’amore di un fidanzato: “io ti amo con un po’ del mio cuore e una parte della mia anima”? La fidanzata non ne sarebbe entusiasta.
Dunque l’amore è “tutto” ed è “per sempre”, perché la sua misura è impressa nell’immagine e somiglianza divina, che porta l’uomo dentro di sé, è di dimensione eterna. In amore o ci si apre a giocarcisi fino in fondo o non è amore.
Dio ci ama così, non conosce altro modo. E noi, da figli di Dio, siamo chiamati ad amare secondo gli stessi parametri.
Non pensiamo che siano importanti umiltà, obbedienza, castità, rettitudine, purezza, generosità, solidarietà… Dio non cerca queste cose: Dio cerca amanti. Chi si innamora, allora, diviene umile, obbediente, casto, retto, puro, generoso, e molto altro. Non serve mettere i frutti dell’amore avanti all’amore.
Prima viene l’amore, poi conseguono i frutti. Il punto è innamorarsi di Dio con un’intuizione felice e grata del suo amore per noi; e questo non potrà far altro che tradursi in amore per il prossimo.
Quanto ci ha amati e ci ama Dio in Cristo? Da morire.
Letteralmente.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli