Il tuo futuro è nell’amare
Riprendendo quanto scritto nella Torah, l’evangelo odierno pone al cuore del vivere del credente il comando dell’amore. Anzi, l’amore come comando. Ma questo sta all’interno della risposta che Gesù dà alla domanda che, seppure in sé legittima e corrente all’epoca, tuttavia è posta con intenzione perversa (Mt 22,35). La risposta di Gesù reagisce alla domanda su cosa sia centrale, essenziale, irrinunciabile nella vita di fede. Questa domanda il credente dovrebbe sempre porsela, perché il passare del tempo rischia di far perdere la misura delle cose, la giusta proporzione dei problemi, e di farci smarrire nei dettagli. E il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli. La domanda rivolta a Gesù svela che c’è un ordine nel volere di Dio, così come esiste una gerarchia di valore nelle realtà che si vivono. C’è, nella nostra vita il bisogno di andare all’essenziale, di trovare un centro, un punto di sintesi, una realtà che dia unità e senso a ciò che facciamo e senza il quale il nostro vivere si dissipa, si perde in futilità fatte divenire motivi di vita.
La domanda posta dal dottore della Legge è uno squarcio di lucidità anche per noi: che cosa, in mezzo alle tante cose che facciamo risalire alla volontà di Dio, alle cose sante, è davvero decisivo? E cosa, invece, può essere tralasciato? Questo fa parte del processo di una riforma, tanto a livello personale, quanto ecclesiale e comunitario. Altrimenti elementi periferici possono assumere una centralità che perverte la vita tutta. Riforma è discernimento tra verità e consuetudine: perché il rischio che spesso avviene nella chiesa è quello di assolutizzare ciò che è relativo e sostituire la verità con elementi particolari, con dettagli. Operazione, appunto, diabolica. Guardando sempre e solo un albero si finisce con il non vedere più la foresta e così non si conosce né la foresta né l’albero, né il particolare né l’insieme.
Quanto poi al fatto che la risposta di Gesù parli di un primo e di un secondo comandamento non significa solo che esiste un ordine tra i comandamenti, perché poi Gesù aggiunge che i due comandamenti sono simili: “Il secondo, cioè, amare il prossimo, è simile al primo, cioè, amare Dio con tutto se stesso” (cf. Mt 22,39). Fra i due comandamenti vi è reciprocità come in uno specchio. L’amore per il prossimo è specchio dell’amore per Dio. Vi è consustanzialità tra i due. Dirà molto bene Giovanni nella seconda lettura: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). L’amore per il prossimo, in dipendenza dall’amore per Dio con tutto se stesso, implica un lavoro di decentramento da sé che conduce ad amare anche colui che agli occhi umani è un nemico, ma agli occhi di Dio resta una creatura a sua immagine e somiglianza, un suo figlio, un mio fratello. Così, l’amore del prossimo diviene narrazione sacramentale dell’amore di Dio per l’uomo e testimonianza dell’amore umano per Dio.
Ma chiediamoci: perché l’amore del prossimo è il secondo comandamento? Matteo parla del comando di amare Dio come “primo” comandamento (Mt 22,38; cf. Mc 12,29) e di quello di amare il prossimo come del “secondo” (Mt 22,38; cf. Mc 12,31). In Luca non si trova più alcuna menzione di primo e secondo: questo ordine dei comandi scompare e i due sono pienamente unificati (Lc 10,27). Ma, più radicalmente, il carattere “secondo” del comando di amare il prossimo è anzitutto connesso al suo stesso essere un comandamento. E in questo esso è in compagnia del comandamento di amare Dio. Il comandamento dice la priorità di Colui che lo formula e lo dona. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’uomo di adempierlo. “Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio” (Franz Rosenzweig). La prima lettera di Giovanni afferma: “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19).
Il comandamento poi non è solo “ordine”, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice “tu devi”, ma dice anche e prioritariamente “tu puoi”. Anzi, si basa sul “tu puoi”. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: “Tu amerai” (agapéseis). Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente. Quell’“amerai” (ripetuto due volte nel passo di Matteo) è un futuro, e dice che solo l’amore crea futuro. Tu amerai: il tuo futuro è nell’amare. Amando nell’oggi, apri per te un futuro sensato. Amando ti dai un futuro perché l’amore ha sempre ragione e basta a se stesso. Anche se non viene capito o misconosciuto o disprezzato. E aprendo per te un futuro lo puoi aprire anche per gli altri, sempre grazie all’amore. Perché, dice Paolo, solo l’amore resterà (cf. 1Cor 13,8.13). Altra dimensione di futuro insita nell’amare il prossimo è quella che riguarda l’amare chi ancora non c’è. Agisci nell’oggi in modo che il prossimo, chi verrà dopo di te, le generazioni future, possano esserti grati e non doverti maledire. Il prossimo a venire, colui che, pur non essendoci ancora perché non ancora nato, non per questo deve essere assente dalla responsabilità di chi vive e agisce nell’oggi.
L’amore quindi, sia per Dio che per il prossimo, è secondo perché suppone l’attivazione della capacità di ascolto e, attraverso, l’ascolto, la fede. Per Marco il primo comandamento è costituito dalle parole iniziali della quotidiana confessione di fede che è lo shemac: “Ascolta Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore; tu amerai il Signore…” (Mc 12,29). E l’ascolto dello shemac è ascolto di una parola con cui Dio convoca tutte le facoltà dell’uomo a impegnarsi nell’amore per Dio: cuore, anima, mente (Mt 22,37). In questa totalità della persona umana invitata ad amare Dio vi è già implicato l’invito ad amare l’uomo. L’uomo, infatti, è relazione con l’altro: egli non è senza l’altro. E amare Dio con tutte le fibre del proprio essere non può che implicare anche l’amore per ogni essere creato a immagine e somiglianza di Dio. E anche l’amore per quella terra, quell’ambiente che è il primo prossimo di ogni uomo. E per quegli esseri animali che sono co-creature con l’uomo, e per le creature vegetali e minerali che costituiscono la casa comune che Dio ha preparato l’uomo.
La priorità del comando di amare Dio rispetto all’amare il prossimo sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dell’essere spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità “io-tu”, sempre a rischio di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è “prossimo”), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al Terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo.
Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è ben visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante.
Ma l’ordine dei comandi, il loro essere primo e secondo, e l’essere il secondo specchio del primo e simile ad esso, è in bocca a quel Gesù che i comandamenti non si limita a formularli ma li vive in prima persona. L’umanità di Gesù narra l’ordine dell’amore: sapendosi amato dal Padre (“Il Padre ama il Figlio”: Gv 3,35; “Il Padre mi ama”: Gv 10,17), Gesù ama il Padre, l’Abbà (“Io amo il Padre”: Gv 14,31”) e ama i suoi, il suo prossimo fino a dare la vita per loro (“Gesù avendo amato i suoi, li amò fino alla fine”: Gv 13,1). E l’amore per i suoi, illuminato dall’amore per Dio diviene anche amore per il nemico. Amore effettivo e concreto anche per Giuda, davanti a cui Gesù si inchina per lavargli i piedi facendo il gesto dell’amore e del servizio per colui che sta per alzare il calcagno contro di lui con il tradimento (Sal 41,10; Gv 13,18). Gesù ha amato anche Giuda lasciandosi plasmare da ciò che soffriva e subiva. Anche Gesù ha vissuto l’amore come obbedienza radicale al volere di Dio e così ne ha fatto l’esperienza trasformativa che ha reso appassionata la sua vita e ha vivificato la sua morte.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose