A chi appartengo in verità?
La pagina evangelica odierna, la pericope del “tributo a Cesare”, è la prima di tre dispute in cui Gesù è trascinato dai suoi avversari che cercano di tendergli un trabocchetto. Se la prima (Mt 22,15-21) è politica, la seconda e la terza sono di ordine religioso e vertono sulla fede nella resurrezione (Mt 22,23-33) e su quale sia il comandamento più importante (Mt 22,34-40). L’attenzione dei lettori della nostra pericope e anche dell’interpretazione che ne è stata data nel corso dei secoli si è normalmente rivolta alle parole di Gesù sul dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, tuttavia la prima e maggior parte del testo è occupata da annotazioni che mettono in luce le intenzioni perverse degli avversari di Gesù e le loro macchinazioni. I vv. 15-17 aprono il testo mostrando la preparazione del trabocchetto nei confronti di Gesù: mentire fa sentire all’uomo un senso di potere perché con la menzogna egli ricrea la realtà e si prende gioco degli altri. Il menzognero sa, a differenza di colui a cui mente, e si trova in posizione di vantaggio nei suoi confronti.
Anzitutto si parla di un “tenere consiglio” da parte dei farisei. Si radunano per studiare un piano d’azione con il preciso fine di prendere Gesù al laccio con una parola. Vogliono ingannarlo inducendolo a pronunciare parole sulla cui base egli possa essere accusato. Per far cadere Gesù in trappola con le sue parole occorrono parole come trappole. Così quello strumento così vitale e propriamente umano che è la parola, che è la via che noi abbiamo per elaborare spazi alternativi alla violenza, viene distorto nel suo contrario e diventa strumento di violenza. Gli avversari di Gesù scelgono la menzogna. La loro è una decisione lucida, una manipolazione intenzionale, studiata e perseguita: “Tennero consiglio sul modo di prenderlo al laccio con una parola” (Mt 22,15). L’espressione “tenere consiglio”, definisce delle riunioni che sono dei complotti. È così in Mt 27,1: “Gran sacerdoti e anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo morire”. La riunione non è in vista di una discussione, ma per trovare la maniera più economica di mettere in atto ciò che è già stato deciso; è così in Mt 28,12 dove i gran sacerdoti tennero consiglio con gli anziani decidendo di corrompere con molto denaro le guardie che erano al sepolcro per diffondere la menzogna che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù mentre loro si erano addormentati.
La falsità si manifesta poi nell’invio da parte dei farisei di alcuni discepoli con gli erodiani per tendere la trappola a Gesù. Come? Con una captatio benevolentiae. Con parole di adulazione, parole che dicono il contrario di ciò che i parlanti sentono e pensano. Con parole che sorridono, mentre il cuore esprime odio. Ma Gesù intuisce la malvagità celata dietro a quelle parole cortesi e subito, con una sicurezza che può stupire, denuncia l’ipocrisia di chi dice una cosa mentre ne pensa un’altra, e di chi pone una domanda non per desiderio di conoscere ma per volontà di cogliere in fallo e poter accusare. Questo si chiama manipolazione e abuso. Essi dunque pronunciano parole che nelle loro intenzioni dovrebbero rendere Gesù ben disposto verso di loro e indurlo ad accogliere come innocente la domanda che gli pongono. Lo chiamano “Maestro”, ma anche questo è falso, perché per loro Gesù non è un maestro, da lui non vogliono imparare. Quindi proclamano il suo essere veritiero, fanno una sorta di confessione di fede nel suo insegnare secondo verità la via di Dio: per due volte in poche parole ricorrono i termini verità, veritiero e la veridicità è esattamente ciò che manca a loro. Ma, appunto, l’enfasi sulla verità denuncia il menzognero, come l’enfasi sul coraggio denuncia il vile.
Gli interlocutori di Gesù proclamano poi la sua libertà, la sua indipendenza di giudizio, il suo non guardare in faccia a nessuno. Essi dicono cose vere su Gesù: spesso si mente dicendo cose vere, o almeno, cose rispondenti alla realtà. E anche la domanda che essi pongono è legittima. Ma l’intenzione è altrettanto chiara: se Gesù risponde dicendo che occorre rifiutarsi di pagare l’imposta (il census, la tassa pro capite imposta dagli occupanti romani a partire dal 6 d.C. e consistente in un denaro d’argento, la paga di un giorno di un lavoratore) agli occupanti romani, può essere accusato davanti al governatore; se invece risponde che occorre pagarla, si rende impopolare di fronte alla gente. Il testo evangelico, presentando il procedimento ingannevole e manipolatorio degli avversari di Gesù ci pone di fronte e ci mette in guardia dal rischio della doppiezza. Che ha molte sfaccettature: quasi quotidianamente ci imbattiamo in mezze verità, in piccole menzogne, in cose dette solo in parte, in comunicazioni dettagliatissime su cose periferiche e reticenti su altre più importanti. Camaleontismo, dissimulazione, finzione, nascondere accuratamente alcune cose che si intende fare e dirne solo alcune altre più accoglibili, dire ciò che l’altro si pensa che voglia sentirsi dire e non dirgli ciò che sarebbe più compromettente, non sono che forme di questa penosa quotidianità del mentire.
Ma ecco che il testo dice che Gesù “conosce” la loro “malvagità”, quella disposizione negativa che si oppone a giustizia e bontà, e che si manifesta disconoscendo verità e sincerità. Gesù è uomo di fede, ma non presta fede a ogni parola e sa che anche discorsi infarciti di affermazioni isolatamente vere, in realtà si rivelano menzogneri. E così Gesù tuona contro la loro ipocrisia, contro il loro simulare, il loro indossare una maschera, il loro non prendere sul serio la vita, le relazioni e in definitiva nemmeno se stessi. Il menzognero, colui che intenzionalmente dice il contrario di ciò che pensa, è una parvenza d’uomo, uno che abdica alla propria dignità, uno che non ha rispetto di se stesso. Gesù denuncia questa imperdonabile leggerezza che è viltà: l’ipocrita si nasconde dietro una maschera e così può prendersi gioco degli altri. E Gesù pone la domanda che spesso mette in crisi le nostre macchinazioni: “Perché?”. “Perché mi tentate?” chiede Gesù. Perché tutto questo? E forse ci basta far risuonare nel nostro profondo questa domanda per trovare uno spiraglio di uscita dai tranelli in cui la menzogna ci imprigiona. Se la menzogna infatti ci fa sentire padroni della realtà e degli altri, essa spesso arriva a schiavizzarci e ci mette in sua balìa. Nelle spire della menzogna si può arrivare a perdere il controllo del proprio agire e a cadere in confusione. Una domanda che risuona semplice e tagliente può invece aprirci la strada a un ritrovamento di luce. Gesù sembra voler fare questo con i suoi avversari. E quando essi gli presentano il denaro d’argento, ovvero la moneta che aveva su di sé l’effigie di Tiberio Augusto con l’iscrizione Tiberius Caesar divi Augusti filius augustus pontifex maximus, (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, pontefice massimo) non mostra alcuna inibizione a maneggiare la moneta, non demonizza il denaro, e afferma la liceità di pagare il tributo, ma aggiunge – e questa è l’originalità di Gesù – che occorre dare a Dio quello che è di Dio. Ecco la libertà di Gesù, la sua creatività, la sua intelligenza, il suo inventare questa risposta che non risponde a nessuna domanda che gli fosse stata posta. La risposta di Gesù, da un lato, evita la politicizzazione dell’immagine di Dio e, dall’altro, si oppone alla sacralizzazione del potere politico. Gesù infatti si distanzia dagli zeloti che consideravano Dio come unico “Cesare” legittimo e critica la sacralizzazione del potere politico demitizzando Cesare. In entrambi i casi siamo di fronte a tentazioni idolatriche. Nel primo caso la tentazione è di dare a Dio quel che spetta a Cesare, all’entità statale, cadendo in posizioni religiose totalitarie e non dialogiche, irrispettose della “laicità” dello stato e del potere politico; nel secondo, la tentazione è di dare a Cesare quel che spetta a Dio, all’interno di una assolutizzazione del potere politico. Søren Kierkegaard commenta questo passo giocando sul tema dell’infinita indifferenza di Gesù nei confronti di Cesare e dell’infinita differenza che egli pone tra Dio e Cesare: “O infinita indifferenza! Che Cesare si chiami Erode o Salmanassar, che sia romano o giapponese, è cosa che a Gesù non importa minimamente. Ma, d’altra parte, quale abisso d’infinita differenza egli stabilì tra Dio e Cesare”. Tertulliano scrive: “Quali saranno le cose di Dio che siano simili al denaro di Cesare? Si intende l’immagine e la somiglianza con lui. Egli comanda quindi di rendere l’uomo al creatore, nella cui immagine e nella cui somiglianza era stato effigiato” (Contro Marcione IV,38,1). Se il tema dell’immagine rinvia naturalmente all’uomo creato da Dio e capax Dei, il tema dell’iscrizione la si ritrova in un passo isaiano in cui designa l’appartenenza dell’uomo a Dio. I convertiti alla fede nel Dio d’Israele porteranno sulla mano l’iscrizione “Del Signore” e diranno: “Io appartengo al Signore” (Is 44,5). Le parole di Gesù spingono così anche noi a porci la domanda: a chi appartengo? Chi è il mio Signore?
Ecco dunque che gli avversari di Gesù, udita la sua risposta, restarono meravigliati e se ne andarono (Mt 22,22). Ma dopo la meraviglia, che è momento spontaneo e incoativo, occorre una scelta, un’elaborazione, per far divenire la meraviglia conversione e ritrovamento di verità. E questo è anche il lavoro del lettore di questa pagina evangelica.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose