L’ultima parabola indirizzata da Gesù ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo racconta degli invitati alle nozze del figlio del re. A guardar bene si tratta di una parabola con una specie di appendice: il racconto fittizio parte dal v. 2 e ha una prima conclusione al v. 10, quando inizia la festa, alla quale partecipano solo gli invitati che sono stati presi dalla strada. Al v. 11, quando compare il re, la storia però prende un’altra via: abbandonando quella dei convitati restii, si concentra piuttosto su un singolo uomo, che non ha l’abito nuziale adatto. La conclusione, al v. 14, serve evidentemente a tutte e due le storie e conserva un detto di Gesù molto suggestivo ma difficile da interpretare.
Partendo da quanto un esegeta, Mario Meruzzi (Lo sposo, le nozze e gli invitati. Aspetti nuziali nella teologia di Matteo, Cittadella 2008) ha osservato su Gesù-Sposo in 9,14-17, la relazione nuziale Cristo-Chiesa è il paradigma per comprendere la storia della salvezza. Da qui ne viene anche una spiegazione per la nostra parabola: «il re è Dio. Il figlio è Gesù. La festa per il matrimonio rappresenta il banchetto escatologico. I servi inviati due volte, come nella parabola precedente, sono i messaggeri di Dio. L’uccisione degli inviati rappresenta il martirio dei profeti e di Gesù. E la terza missione dei servi è la missione della Chiesa, nella quale bene e male si confronteranno fino alla fine dei tempi» (Davies e Allison).
Questa interpretazione sembra adeguata, ma le si possono muovere almeno due obiezioni: a) la più importante viene da una lettura pragmatica del testo, e ricorda che ogni parabola, anche se acquista un suo significato quando inserita nel contesto storico in cui è narrata, non deve essere allegorizzata: una parabola ha un senso per il lettore di ogni tempo. Più precisamente, se si dovesse insistere sulle identificazioni tra i dettagli della parabola e la storia, allora si arriverà presto a dire che è tutto Israele a rifiutare l’invito del re, che la città messa a fuoco è Gerusalemme ecc… Inevitabilmente questo porterà ancora a una teologia della sostituzione. Per evitare questo rischio, si deve ribadire che Gesù sta parlando ai leader e dei leader di Israele (come si evince dall’introduzione alle tre parabole, in 21,23, e da 21,45), e non a o di tutto il popolo; b) la seconda riserva viene dal fatto che, seguendo questa linea allegorizzante, si fa presto ad attribuire le responsabilità agli “altri”, quelli che hanno rifiutato l’invito, evitando così di lasciarsi interpellare dal fatto che la possibilità di non entrare alla festa è per tutti.
Per evitare questo rischio, si deve ribadire che la parabola di Gesù è rivolta – nel momento in cui l’evangelista la riporta – alla comunità di Matteo, i cui membri sono i lettori che per primi sono coinvolti nel processo ermeneutico. Soprattutto, sembra parlare della comunità di Matteo proprio la seconda parte della parabola (vv. 11-13), quella che descrive l’inadeguatezza di coloro che sono sì entrati alla festa, ma poi vengono cacciati fuori. Mettendo insieme le due parti della parabola con il detto conclusivo del v. 14, sembra si possa ottenere un ragionamento che vale sia per coloro che sono chiamati e respingono l’invito (probabilmente, fuori dal simbolo, i leader di Israele), sia per gli esclusi che invece poi entrano alla festa, forse (prima possibilità) i credenti in Cristo, in senso generico, o forse (seconda possibilità), in senso più preciso, i pagani che entrano nella comunità messianica. Esploriamo queste due strade.
(1) L’idea di chiamata (= elezione), che è fortemente presente nella coscienza di Israele, per definizione, il “popolo eletto” da Dio stesso, vale anche per la chiamata di coloro che saranno poi i cristiani. Come l’elezione di Israele dagli stessi profeti non è mai considerata una realtà statica, ma un dono di Dio da cui consegue un’esigenza corrispondente, allo stesso modo è la chiamata a seguire il Messia Gesù. Ogni volta che Israele è chiamato alla pienezza della vita, resta una libera scelta accettare o meno l’invito, e la stessa cosa si può dire di coloro che sono chiamati “fuori”, «scelti», per il banchetto, e decidono di entrarvi: anche per essi non è automatica la partecipazione alla festa, e a quelli che vi partecipano con l’abito sbagliato può capitare la stessa sorte dei malvagi, ovvero gli «altri» del v. 22,6 (non tutti: solo una parte degli invitati iniziali) che hanno ucciso i servi del re e incorrono nella sua ira: i primi sono messi a morte, e invece l’uomo trovato con l’abito inadeguato è cacciato fuori dalla sala.
(2) Esiste però una seconda possibile lettura, con la quale si può vedere dietro la parabola anche il tema della missione ai pagani, che a un certo punto interpella i primi cristiani e anche la comunità di Matteo, per la quale diventerà però un punto scottante. Una volta che ci si è scontrati con l’ostilità di molti dei capi religiosi, ecco che per annunciare che Gesù è il Messia ( = per invitare alle nozze messianiche), i cristiani comprenderanno che ci si può rivolgere ai non circoncisi (nel racconto di Matteo, solo però dopo l’esplicito invito del Risorto in 28,19). Paolo sarà – anzi, è già stato, rispetto allo sviluppo della comunità matteana – uno dei rappresentanti di questa tensione tra rifiuto di parte di Israele e annuncio ai pagani, come scriverà in una sua lettera: «(Gli israeliti) inciamparono in modo da cadere definitivamente? Non sia mai detto! Ma a motivo della loro caduta la salvezza pervenne ai gentili, in modo da eccitare la loro emulazione. Ma se la loro caduta è una ricchezza per il mondo e la loro perdita una ricchezza per i gentili, quanto più lo sarà la loro totalità!» (Rm 11,11-12).
La fede cristiana, che poteva rimanere un fenomeno isolato all’interno del giudaismo, sperimentando il rifiuto di alcuni, si è invece rivolta a tutti. L’idea è stata formulata, dopo Paolo, anche da uno dei più grandi pensatori ebrei, Mosè Maimonide. Un suo testo, in minoranza nel pensiero ebraico, riconosce al cristianesimo (e all’Islam) un certo valore provvidenziale per la diffusione del monoteismo e della Torà: «Tutto ciò che riguarda Gesù di Nazaret e l’Ismaelita [Maometto] venuto dopo di lui non è servito che a liberare la via del Re Messia e a preparare tutto il mondo all’adorazione di Dio nella comunione dei cuori, come è scritto: “Sì, allora Io darò alle genti labbra pure, perché tutti invochino il Nome del Signore, perché lo servano spalla a spalla” (Sof 3,9). Così la speranza messianica, la Torà e i precetti sono divenuti patrimonio religioso comune fra gli abitanti delle isole lontane e tra i numerosi popoli incirconcisi di cuore e di carne» (Hilkhot Melahkim XI,4). È il mistero dell’insistenza e della misericordia di Dio, che non si ferma davanti a nessun ostacolo, non dimentica Israele e nemmeno nessun altro popolo.
Molti sono chiamati; pochi scelti (22,14). Detto questo, è chiaro perché, a nostro avviso, nel detto con cui si chiude la parabola non si deve vedere necessariamente un’opposizione tra quelli che entrano al banchetto di nozze e quelli che non vogliono partecipare alla festa, come non vi è necessariamente opposizione tra le due parti della frase del v. 14, unite dalla particella greca de, che in Matteo indica la necessità di cambiare la prospettiva, piuttosto che un concetto avversativo (e questo nonostante san Girolamo, traducendo «multi autem sunt vocati pauci vero electi», sembri voler sottolineare la forte differenza tra le due condizioni di chiamati ed eletti).
Il detto può essere interpretato anche tenendo conto che l’aggettivo polloí («molti») ricorre anche in 20,28, nelle parole sul Figlio dell’uomo venuto per dare la vita «in riscatto per molti», e in 26,28, nelle parole di Gesù sul calice («questo infatti è il mio sangue dell’alleanza, che sarà versato per molti»). Se anche qui in 22,14 i «molti» dovesse alludere all’Israele di Dio, vorrebbe dire che sono essi il popolo «chiamato», che rimane tale, mentre «pochi» sono scelti per partecipare alla comunità del Messia. Infatti, l’aggettivo olígoi («pochi»), sempre in questo versetto, è un semitismo che significa «meno di», «non tutti», e questo concorda con il fatto che l’aggettivo eklektós («scelto», «eletto»), nel NT è usato quindici volte per connotare i credenti in Gesù Messia (e la ekklēsía [«Chiesa»] è infatti la comunità degli «eletti», di coloro che sono “chiamati fuori”), in un contesto per lo più escatologico (presente anche qui, descritto attraverso la scena delle nozze del re e dell’invitato con il vestito non adatto).
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini