L’abito nuziale? Veste il cuore non la pelle
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 11 Ottobre 2020.
Festa grande, in città: si sposa il figlio del re. Succede però che gli invitati, persone serie, piedi per terra, cominciano ad accampare delle scuse: hanno degli impegni, degli affari da concludere, non hanno tempo per cose di poco conto: un banchetto, feste, affetti, volti.
L’idolo della quantità ha chiesto che gli fosse sacrificata la qualità della vita. Perché il succo della parabola è questo: Dio è come uno che organizza una festa, la migliore delle feste, e ti invita, e mette sul piatto le condizioni per una vita buona, bella e gioiosa. Tutto il Vangelo è l’affermazione che la vita è e non può che essere una continua ricerca della felicità, e Gesù ne possiede la chiave. Ma nessuno viene alla festa, la sala è vuota.
La reazione del re è dura, ma anche splendida: invia i servitori a certificare il fallimento dei primi, e poi a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, il Signore apre incontri altrove. Come ha dato la sua vigna ad altri viticoltori, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati.
I servi partono con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. Non chiede niente, dona tutto. È bello questo Dio che, quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. […]
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MENDICANDO IL CIELO
C’è, in città, una grande festa: si sposa il figlio del re.
La prima immagine è quella di una sala preparata per la festa, la seconda è la strada: la libertà delle scelte. Di quelli che seguono una logica mercantile e contabile, troppo impegnati per vivere.
La terza immagine è l’abito nuziale.
Di cosa è simbolo quell’abito migliore? Di una vita senza macchie? No.
Indica il meglio di noi: è quello della Donna dell’Apocalisse vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo le stelle, che indossa il guardaroba di Dio, l’abito da festa del creato che è la luce, il primo di tutti i segni.
La parabola inizia con una reggia senza canti, con una sala vuota, e termina con un dramma: gettatelo fuori.
E’ possibile fallire la vita.
L’uomo che verrà cacciato non è peggiore degli altri, ma è spento dentro. Non gode della festa perché non ci crede a un Dio di festa. Quel re non è credibile: non è possibile avere a palazzo straccioni e vagabondi!
Ha la mentalità di quelli che non avevano tempo, è lì, ma è altrove. È il dramma dell’uomo che si è sbagliato su Dio, che non immagina un Regno fatto di festa e convivialità.
Ancora dentro questi nostri giorni dolenti e splendidi Dio rinnova i suoi inviti, a dirci che l’eternità non è in un altro orologio, che questo tempo è già un attimo di infinito. Ora, con Dio.
L’invito è convertire l’economia delle cose in quella delle persone, a prenderci del tempo per l’incontro, per gli amici, per Dio che pensiamo lontano e invece è dentro la sala della vita, la sala del mondo, una scala di luce posata sul cuore che sale verso lui.
- AUTORE: p. Ermes Ronchi
- FONTE: Avvenire
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