Un banchetto offerto a tutti
La parabola al centro della liturgia odierna fa il paio con quella udita domenica scorsa. Diversa è l’immagine, là la vigna, qui il banchetto, e pure l’azione è piuttosto diversa.
Nel caso della vigna, i servi affittuari nella loro ingordigia padronale, presumendo con ciò di mettere le mani sulla vigna, pretesa come loro eredità, arrivano ad uccidere chi era stato mandato a richiedere da loro i frutti, incluso il figlio-erede che, nella loro speranza, avrebbe risolto per sempre il problema di chi era il vero padrone.
Nel caso del banchetto nuziale, invece, gli invitati si limitano a non presentarsi per le più svariate ragioni, dimostrando con ciò di non essere interessati all’invito, anche se pure alcuni di loro arrivano ad uccidere.
Domanda: è peggio l’aggressività o l’indifferenza? Non saprei rispondere, ma temo che la seconda, apparentemente meno grave, è però più insidiosa proprio perché fa meno impressione, e quello che dovrebbe essere l’oggetto del desiderio – il banchetto offerto dal re – scivola nel disinteresse e sfuma nell’insignificanza. Ho l’impressione che questa sia la situazione della fede, in Cristo e nella Chiesa, nel mondo occidentale contemporaneo, che, dopo i secoli di cosiddetta “cristianità”, appare oggi più una stanza desolatamente vuota che un “banchetto” ricco di festa, di gioia e di invitati che s’affollano attorno a una mensa imbandita per loro. Ma anche questa, come la parabola gemella della vigna, ha una conclusione terribile che deve far riflettere, almeno per chiedersi di chi è la colpa di tale diserzione e provvedere, per quanto possibile, al rimedio.
Una folla festosa
Il percorso delle letture è piuttosto chiaro. Si inizia con la bellezza affascinante di un banchetto preparato «per tutti i popoli» (Is 25,6-10a) per finire con la diserzione di chi era stato invitato (Mt 22,1-14). Dall’esultanza prevista annunciata dal profeta si passa allo sconforto del “re”, che si tramuta in indignazione contro gli “assassini”.
Il linguaggio è violento, ma si deve ricordare che – come capita a noi – con questo si intende rimarcare che l’indignazione è l’altra faccia dell’entusiasmo, e che da quella si deve risalire a questo per apprezzare e ritrovare la speranza originaria che abitava il cuore del “re” quando pensò al suo progetto.
Giova, dunque, ritrovare tale entusiasmo, tenendo sempre sullo sfondo che abbiamo a che fare con una “parabola del Regno”, e dunque, fuori di metafora, con un obiettivo che riguarda direttamente la Chiesa, la quale, nella sua realtà, è di questo regno il «sacramento», cioè il segno visibile ed efficace (LG 9).
Il primo passo da fare nella riflessione consiste dunque nel lasciarci incantare da quello che resta pur sempre il progetto originario, si potrebbe dire il sogno vagheggiato da Dio per l’umanità da lui creata e posta «nel giardino» del mondo (cf. Gen 2,8.14).
La prospettiva è esaltante. La figura del banchetto richiama una folla in festa. Si comincia dall’offerta di «cibi succulenti» che rispondono al primo bisogno dell’uomo, un essere che per natura “ha fame”, di cibo ma anche di gioia, e la prima forma di tale gioia è quella che spunta naturalmente nell’animo di chi si vede circondato da una folla di amici, guarendo in questo modo quella tristezza che nasce dalla solitudine, perché «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18), e in questo banchetto è chiamata a radunarsi una folla che comprende «tutti i popoli», nientemeno.
E il senso del banchetto come festa gioiosa si dilata a comprendere un orizzonte di piena luce, perché il velo che, come una coltre copre la faccia di tutti i popoli, è strappato per lasciare il posto a un bagliore accecante, perché spariranno la morte, e ciò che la preannuncia e la prepara, le lacrime e la vergogna! La prospettiva universale è martellata come un ritornello gioioso: tutti i popoli, tutte le nazioni, tutta la terra!
Naturale la reazione di chi ascolta questa profezia: speranza, gioia ed esultanza per questa incredibile “salvezza” che elimina i mali più gravi che ci minacciano: la fame, il pianto, la morte, perché «la mano del Signore si poserà su questo monte», una mano che non schiaccia e non ghermisce, ma che accarezza e rialza, una mano delicata e materna.
Se davanti a questo incanto ci mancano le parole, la liturgia ci offre un’occasione mirabile per scoprire e gustare tutta la bellezza del Salmo 22, “Il Signore è il mio pastore”, una delle più belle preghiere mirate a educare e a sostenere la nostra speranza. Ove l’assemblea lo conosca, sarebbe davvero bello poterlo cantare, perché non c’è gioia piena senza canto!
Fiducia e carità
La lettura di san Paolo (Fil 4,12-14.19-20) non interrompe il percorso, ma semmai lo integra presentando una situazione di grande pace interiore, che dovrebbe essere tipica di chi sa di essere seduto al banchetto offerto dalla grande generosità del re. «Sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà forza», afferma l’Apostolo.
Era il grande motto di santa Francesca Cabrini, che la spinse a percorrere le strade del mondo con un coraggio incredibile, per fondare scuole e ospedali, per soccorrere in mille modi i numerosi migranti italiani che, contro la fame, si avventurarono speranzosi nelle terre d’America, nord e sud, con uno slancio inarrestabile di cui fui contagiato da bambino e da ragazzo nella scuola da lei fondata e gestita al mio paese dalle sue figlie, le Missionarie del Sacro Cuore.
Ma San Paolo è così saggio da riconoscere che quel «tutto posso», se è primariamente legato alla sua fiducia in Dio, è nondimeno sostenuto dalla carità concreta dei cristiani della comunità di Filippi, che hanno voluto «prendere parte alle sue tribolazioni», e che per questo meriteranno pure loro di essere «colmati nei loro bisogni secondo la sua ricchezza con magnificenza».
Pura gratuità
La parabola è rivolta, come quella della vigna, ai «capi dei sacerdoti e ai farisei», e il banchetto è collegato con la «festa di nozze per il figlio del re» (Mt 22,1-14). Il riferimento alla parabola udita la scorsa domenica non potrebbe essere più chiaro.
La prima missione dei servi che vanno a fare l’invito è un fallimento totale. Il re fa un secondo tentativo, motivandolo in dettagli che mostrano tutta la cura che egli ha messo nella preparazione del banchetto, ma questa volta il disastro è ancora più grave: «Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero». Perché disturbarsi per un banchetto, quando la custodia dei propri beni e il profitto che si può trarre dagli affari sono cose più visibili e concrete, cose che si “possiedono” e che fanno la base della propria sicurezza?
Quando si vive in una situazione di benessere, si arriva a non capire più la “gratuità di un gesto”! Se lo fa, si pensa, ci sarà sotto qualche cosa. C’è un proverbio che recita: “neanche un cane per niente muove la coda”!
E chi si ricorda più che Gesù ci ha già presentato (si veda la domenica 24a) la figura di un Dio che per principio “esagera” in generosità?
Questa “indifferenza” degli invitati ci deve far pensare, e ancora più la reazione di quelli che «presero i servi, li insultarono e li uccisero», come per liberarsi di un fastidio: si preferisce chiudere la bocca a chi porta l’invito per non essere disturbati.
La reazione del re ha due facce. Con la prima castiga gli assassini e la loro città, e manda così un segnale tremendo che avvisa che non si può prendere in giro Dio. Ma la seconda reazione è ancora più sorprendente. Non solo il re non rinuncia alla voglia di avere a banchetto quelli che erano stati i primi invitati, ma il loro rifiuto lo spinge ad allargare senza misura l’invito, e dice ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze». Così è fatto, e la sala delle nozze si riempie di commensali, «buoni e cattivi».
Non c’è nessun esame preventivo, non c’è un test all’ingresso per fare selezione: l’invito è pura gratuità. Che non va però frainteso, perché alla generosità sconfinata si risponde con un senso di responsabilità. Non si è invitati a una festa qualunque, ma al «banchetto del re per le nozze di suo figlio». Per questo bisogna presentarsi con la «veste nuziale». La punizione è severa, ma serve a richiamarci alla serietà con cui vanno accolti gli inviti di Dio, serietà rimarcata dall’affermazione conclusiva: «Molti sono chiamati, ma pochi eletti».
C’è però un’altra domanda che dobbiamo porci a partire da questa parabola, e questa implica un compito che riguarda tutti: nell’attuale diserzione di molti invitati (cos’altro è il battesimo?) ci si deve chiedere se sia tutta loro la colpa, e come, nel caso, richiamarli. Qui diventa cruciale la pagina di Isaia che mostra bene quali caratteristiche deve avere il banchetto offerto perché torni ad essere “invitante”.
Il profeta ci presenta una Chiesa che vive delle opere di misericordia, che nutre chi ha fame, che consola chi piange, e che lotta contro ogni forma di “morte” che affligge l’umanità. E che fa tutto questo nella serenità e nella gioia. Da anni il papa ci propone la «gioia del vangelo», la «letizia dell’amore», la santità che parte da un invito a «gioire ed esultare», a «uscire» verso «tutti», visti come nostri fratelli. Non per spirito di conquista né di propaganda, ma semplicemente, come il “re”, per affascinare e chiamare a banchetto.
Fonte – Settimana News
Commento a cura di Nico Guerini