Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 4 Ottobre 2020

La vigna, Israele e la Chiesa

La comprensione della parabola detta “dei vignaioli omicidi” ha rappresentato un momento significativo nella storia dell’esegesi cristiana. Chi ne volesse un buon resoconto, può leggere il capitolo che ad essa è dedicato nel bel volume di uno dei più importanti esegeti dello scorso secolo, deceduto nel 2007, Breward Childs, Teologia Biblica. Antico e Nuovo Testamento (Piemme 1998).

Forse è meglio iniziare ancora una volta il nostro commento puntualizzando quello che il nostro testo, con molta probabilità, non vuole dire. La settimana passata abbiamo avuto occasione di parlare di una teologia, o meglio di una certa impostazione interpretativa di alcuni brani del Nuovo Testamento, secondo la quale la Chiesa avrebbe sostituito la sinagoga, per diventare il vero Israele. Gli esperti sanno anche che esiste anche un famoso lavoro del 1975 scritto dall’esegeta tedesco Wolfgang Trilling, intitolato proprio Il vero Israele, e centrato sulla parabola di questa domenica. La tesi dello studioso è che il versetto 41 («Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo») implichi una vera e propria punizione per Israele, la quale «perde la sua vocazione e la sua posizione storico-salvifica» (p. 108). L’evangelista Matteo, calcando ancor più i toni della parabola raccontata da Gesù, compirebbe con le sue parole «un attacco al giudaismo» e la chiesa, in questo modo, sarebbe «non un nuovo Israele, subentrato al vecchio, bensì l’Israele vero, quello genuino, così come Dio l’ha pensato sin dall’inizio» (p. 123).

Tale lettura ha bisogno di essere corretta, e attualmente, secondo il parere di maggioranza, si ritiene che nel vangelo di Matteo non sia scritto nulla di tutto questo. Se è ormai inutile ribadire che Gesù difficilmente deve aver «attaccato il giudaismo» in quanto tale, come invece ritiene Trilling, passiamo subito al secondo punto debole di questa ipotesi. Già anticipato nel vangelo di domenica scorsa, dice che né Gesù (che ha raccontato la parabola), né tanto meno Matteo, che la riporta, pensano che Israele in quanto popolo sia stato rifiutato da Dio. Certo, qui si parla di una punizione pesante, provocata dalla chiusura verso gli emissari del padrone (quei «profeti, sapienti e scribi» di cui si scrive anche in Mt 23,34) e soprattutto dall’uccisione del figlio, ma questo giudizio grava solo sui leader religiosi, quelli altre volte chiamati guide cieche. La vigna – che è l’Israele santo di Dio, il popolo eletto – non è incendiata o devastata come la città di cui si parla nella parabola seguente (Mt 22,7) ma anzi è pronta per dare frutti buoni; solo, non saranno quegli attuali vignaioli a coglierli: la vigna, il popolo dell’alleanza, verrà affidata ad altri contadini.

Come accennavamo nello scorso commento, il problema è l’identificazione di questi “altri”, ovvero il “popolo” a cui sarà affidato il Regno e che finalmente “farà fruttificare la vigna” (Mt 22,43). Questo popolo in senso generico (gr. éthnos, senza articolo), scrive Alberto Mello, è l’insieme di quelli che, come i pubblicani e le prostitute di cui si parlava nel brano immediatamente precedente, «hanno aderito all’annuncio del regno da parte di Giovanni, di Gesù, dei missionari cristiani, in contrapposizione a quelli che lo hanno rifiutato». Ecco perché «dovremmo andare cauti nell’attribuire a Matteo un’esplicita concezione della chiesa quale nuovo o vero Israele; in ogni caso, la prospettiva non è sostitutiva: i vignaioli non prendono il posto della vigna! Se si può parlare di un vero Israele, l’espressione compete al Cristo stesso, pietra angolare».

Quanto detto si accorda con la conclusione di Childs: «È molto importante sul piano teologico capire che la funzione della forma matteana della parabola non è quella di esaltare il cristianesimo rispetto al giudaismo, ma di lasciare aperta la risposta alla rinnovata offerta di riconciliazione fatta dal Cristo innalzato. In un certo senso, la chiesa si trova in una posizione analoga a quella d’Israele. In un altro senso, tuttavia, essa ha già fatto esperienza del miracoloso intervento di Dio. La pietra scartata costituisce ora la testata d’angolo. Sarà questa generazione di cristiani ad accogliere il regno di Dio e a produrre frutti di giustizia, oppure esso le sarà tolto per essere affidato ad un’altra?». Già Ambrogio di Milano vedeva che il pericolo di incorrere nel castigo è per tutti, anche per i cristiani: «Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci: ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi dalla falce del coltivatore eterno» (In Luc. 9).

Detto questo, è chiaro che la parabola è cristologica e teologica. Il figlio del padrone della vigna è caratterizzato con quegli attributi – come l’idea dell’eredità – che sono tipici del linguaggio di Gesù quando parla vuole di sé e del suo rapporto col padre; la sua morte, fuori delle mura della città, ovviamente ricorda la fine del Messia. Ma la parabola dice molto anche a proposito del Padre: il suo giudizio, stranamente, tarda ad arrivare; Dio è rappresentato addirittura come fin troppo paziente. Qualsiasi ascoltatore del racconto, ai tempi di Gesù, sarebbe rimasto colpito da quella che potrebbe sembrare debolezza di carattere. Quel Dio invece sa aspettare, e continua a sperare in un cambiamento dei suoi vignaioli, che potrebbero addirittura «rispettare il suo figlio» (cf. Mt 21,37). Diversamente da quanto facciamo noi, Dio non si lascia demoralizzare da un rifiuto, insiste nella sua proposta di salvezza e invia, per una seconda volta, altri servi, ancora più numerosi dei precedenti. Egli non vuole mai la morte del peccatore, ma che questi si converta e viva.

Purtroppo questo non accade, e la sua pazienza arriva allora a mettere in gioco l’unica carta che gli rimane: il figlio. Su questo punto si deve però stare attenti: è proprio la frase del v. 37 – «Rispetteranno il mio figlio» – che mette in crisi alcune facili e inappropriate teologie della redenzione. In essa vi leggiamo non solo la speranza che Israele si converta, ma anche che il figlio venga risparmiato. Questa affermazione – all’interno della logica del primo vangelo – può essere accostata a quello che possiamo definire come il “sogno di Dio”, ovvero la salvezza del proprio figlio Gesù, espressa plasticamente da Matteo nell’episodio che vede coinvolta la moglie di Pilato (cf. Mt 27,19). Se Pilato avesse ascoltato quel sogno – come del resto è stato fatto da Giuseppe e dai maghi, che hanno prestato attenzione a quanto Dio voleva – al figlio sarebbe forse stata risparmiata la condanna? Senza dimenticare che per tre volte Gesù mostra di salire volontariamente, liberamente, e consapevolmente a Gerusalemme (cf. 16,21-23), dove vi avrebbe incontrato la morte, e che infatti accetta ancora più decisamente nel Ghetsemani («avvenga la tua volontà»: 26,42), addirittura rileggendo la sua consegna alla luce delle Scritture («tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti»: 26,56), non si potrebbe pensare, sempre nella logica del racconto matteano, che il “progetto” iniziale non fosse questo, quanto piuttosto quello di cui parlerà lo stesso Gesù (in verità dopo tutti e tre annunci della passione) accennando a una palingenesi (vedi Mt 19,28 e 25,31-46) che egli avrebbe voluto far avanzare restaurando l’Israele di Dio? Quando il “piano” però comincia a deteriorarsi, allora Gesù, come il figlio della parabola, mostra di amare tanto la sua vigna al punto di morire per essa: «Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore» (Ambrogio, ibid.). La parabola, dunque, che insiste sulla misericordia del padrone, lascia emergere anche dallo sfondo l’offerta gratuita del figlio.


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