Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 4 ottobre 2020.
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Pietra che frantuma i nostri idoli
L’ultimo versetto del Salmo 137 – il celebre canto dell’esule – viene sempre accuratamente ignorato. Dopo lo struggente richiamo al pianto dei deportati lungo i fiumi di Babilonia, il poeta, rivolto alla città sanguinaria, esclama: “Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra” (Sal 137,9). Non minore imbarazzo suscita il versetto che conclude la parabola del vangelo di oggi e che non è riportato nel testo del lezionario. Riferendosi a Cristo – la pietra che i costruttori hanno scartato e che Dio ha posto come pietra angolare – l’evangelista commenta: “Chi cade su questa pietra sarà sfracellato e colui sul quale essa cadrà sarà stritolato” (Mt 21,44).
Sono immagini sconcertanti, che d’un tratto però si illuminano se si coglie il loro riferimento alla scena descritta nel libro di Daniele: un sasso – non mosso da mano d’uomo – si stacca dall’alto e colpisce una statua colossale dall’apparenza splendida, ma terribile, che crolla e va in frantumi (Dn 2,31-35). È l’idolo che, nella sua stoltezza, l’uomo si è costruito e dalla cui schiavitù non riesce più a liberarsi; è la società ingiusta, corrotta e disumana che si è creato e di cui rimane vittima.
Cristo e il suo vangelo sono “il sasso” scagliato da Dio contro questa struttura mostruosa, sono “la pietra” che sbriciola le logiche di questo mondo, le astuzie, le furbizie e soprattutto le immagini insensate che gli uomini si sono fatti di Dio. Contro questa pietra sono destinati a infrangersi i progetti degli empi e “si sfracelleranno i loro figli”: i malvagi cioè non avranno discendenza, rimarranno senza posterità, senza futuro, perché dal mondo nuovo, Dio farà scomparire ogni operatore di iniquità. Questa è la bella notizia!
I grandi di questo mondo – costruttori della nuova “torre di Babele” – scartano questa pietra perché non si adatta ai loro piani, scombina i loro sogni, distrugge i loro regni.
Hanno cercato di eliminarla; ma Dio l’ha scelta come roccia di salvezza e chiunque la pone a fondamento della propria vita non rimarrà deluso.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Siamo la vigna del Signore, quali frutti gli possiamo presentare?”.
Prima Lettura (Is 5,1-7)
1 Canterò per il mio diletto
il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.
2 Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato scelte viti;
vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica.
3 Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda,
siate voi giudici fra me e la mia vigna.
4 Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna
che io non abbia fatto?
Perché, mentre attendevo che producesse uva,
essa ha fatto uva selvatica?
5 Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna:
toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo;
demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.
6 La renderò un deserto, non sarà potata né vangata
e vi cresceranno rovi e pruni;
alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.
7 Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele;
gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita.
Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue,
attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.
“Alla fine dei giorni… nessuna nazione alzerà la spada contro un’altra nazione… Siederanno tranquilli sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà” (Mi 4,1-4). Con questa graziosa immagine bucolica, Michea descrive la vita serena e tranquilla cui aspirava ogni israelita. La vigna era il simbolo della pace, dell’unione familiare, della gioia, della festa. L’amata del Cantico dei cantici sognava di correre tra i filari, mano nella mano con il suo diletto, in un fresco mattino di primavera: “Andremo nelle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni; là ti darò le mie carezze” (Ct 7,13). La sposa dell’uomo benedetto da Dio è “come vite feconda” nell’intimità della sua casa (Sal 128,3).
In questo contesto culturale, in cui alla vigna è associato il richiamo all’amore, è nato il carme che ci viene proposto oggi e che, giustamente, è annoverato fra i capolavori della letteratura mondiale. Descrive la passione di un agricoltore per la sua vigna, un affetto struggente, come quello dell’innamorato per la donna della sua vita. In casa, per strada, con gli amici non parla che di lei.
Il poeta immagina di essere l’amico di questo “sposo” e racconta: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle…” (v. 1). Una vigna eccellente, vitigni acquistati all’estero, ceppi scelti, preferiti fra mille. Era stata piantata su un clivo soleggiato, il posto ideale per ottenere quei grappoli che già in luglio si tingono di violetto, segno dell’uva dal sapore squisito e presagio di un vino buono e forte. Il terreno era stato liberato dalle spine, dalle erbacce e dalle pietre che, raccolte ai margini del campo, costituivano il muro di cinta e la torre di protezione contro ladri e bestie selvatiche.
Nessuna attenzione, nessuna premura, nessun sforzo era stato risparmiato. Le tenerezze dell’amato traspaiono anche dall’insistenza con cui va ripetendo l’espressione mia vigna: “Abitanti di Gerusalemme, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna” (vv. 3-5).
A questo punto il lettore è ansioso di conoscere il seguito del racconto. Cosa produrrà la vigna cui sono state prodigate tante cure? Nella seconda strofa (vv. 3-4) viene narrata la drammatica sorpresa del contadino: si attendeva uva eccellente, invece ecco uva selvatica, aspra, immangiabile (v. 4). Come nel cuore dell’innamorato tradito e deluso, l’amore si tramuta in disappunto, in risentimento, in stizza. L’agricoltore decide di infliggere un terribile castigo alla sua vigna: abbatterà il muro di cinta, lascerà che i viandanti entrino per calpestarla, che gli animali selvatici la devastino e i rovi e i pruni la invadano fino a soffocarla; non la poterà più, non la vangherà; comanderà alle nubi di non spandere su di essa la benefica pioggia e la rugiada (vv. 5-6).
L’ultima strofa (v. 7) spiega il senso dell’immagine: la vigna è Israele; è lui la vite scelta e pregiata che il Signore si è acquistato in Egitto. Già il profeta Osea, qualche anno prima, aveva dichiarato: “Vite rigogliosa era Israele” (Os 10,1).
L’autore del salmo 80 sviluppa il dettaglio della rimozione dei “sassi” – i popoli che occupavano la Palestina prima dell’arrivo degli israeliti – dettaglio che nel nostro carme è solo accennato: “Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra” (Sal 80,9-10).
La torre di protezione era la dinastia di Davide.
A tanto amore Israele ha risposto con l’infedeltà e la ribellione. I frutti (l’uva buona e dolce) che il Signore si attendeva erano la fedeltà all’alleanza, la giustizia sociale, l’aiuto al povero, all’orfano, alla vedova. Che cos’ha trovato? Grida di gente oppressa e sfruttata, menzogne nei tribunali, odio, versamento di sangue, una religione fatta di processioni, pellegrinaggi al tempio, riti cui non corrispondeva la conversione del cuore.
Nel testo originale c’è un curioso gioco di parole: giustizia e rettitudine (che Dio si aspettava dal suo popolo) sono termini simili a spargimento di sangue e grida di oppressi (che sono ciò che Israele produce). Chi li sente pronunciare può addirittura confonderli (mishpat=rettitudine e mishpah=spargimento di sangue; tzedaqah=giustizia e tze’aqah=grida di oppressi). A prima vista anche l’uva selvatica può sembrare buona, ma è solo apparenza.
Nell’allegoria della vigna vengono contrapposti due atteggiamenti: quello di Dio che manifesta un amore concreto (prepara il terreno, pianta viti scelte, le protegge con una torre, scava un tino) e il popolo che, trascurando la giustizia, si accontenta di riti esteriori, di preghiere devote (cf. Is 1,11-17).
La severa denuncia di Isaia viene riproposta ai cristiani di oggi: è su di loro che incombe il pericolo dell’illusione di essere a posto con Dio perché sono impeccabili nell’esecuzione di pratiche religiose.
A causa della sua infedeltà, Israele è andato incontro al disastro nazionale: è stato invaso dai popoli stranieri (gli assiri, i babilonesi…) che hanno devastato “la vigna del Signore” e hanno ridotto Gerusalemme a “un casotto in un campo di cocomeri” (Is 1,8). Questa distruzione è il simbolo della sterilità cui si riduce chi ignora, misconosce, trascura le attenzioni e le premure che Dio ha per lui.
Seconda Lettura (Fil 4, 6-9)
6 Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; 7 e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
8 In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. 9 Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!
Nei primi versetti della lettura (vv. 6-7), Paolo afferma che nulla può distruggere la pace e la gioia di un cristiano, nulla può angosciarlo se rimane unito a Dio nella preghiera.
Nella seconda parte (v. 8) viene presentata una lista di virtù umane che i cristiani sono invitati a coltivare nella propria vita; si tratta di qualità e comportamenti che sono apprezzati da tutti e ovunque. Ciò che rende simpatici, amabili, onorati, rispettati deve essere praticato da ogni cristiano; non si può presumere di essere discepoli di Cristo se prima non si è leali, onesti, integri, rispettabili.
Senza timore di essere smentito, Paolo, mettendo da parte la falsa modestia, osa presentarsi come modello di questi comportamenti (v. 9). La sua raccomandazione è un invito ai cristiani di oggi a coltivare un tratto dolce, simpatico, rispettoso nei confronti di tutti, specialmente dei non credenti.
Vangelo (Mt 21,33-43)
33 Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò.
34 Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. 35 Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono.
36 Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo.
37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! 38 Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. 39 E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero.
40 Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?”.
41 Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”.
42 E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri? 43 Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”.
Come il profeta Isaia, anche Gesù ricorre all’immagine della vigna per descrivere l’opera di Dio e la risposta dell’uomo; la scena però è alquanto diversa. Cambiano i personaggi: in primo piano non ci sono più Dio e la vigna che dà uva acerba e immangiabile, ma ci sono un padrone, Dio, e i suoi dipendenti, identificati con i sommi sacerdoti e le guide spirituali del popolo ai quali è diretta la parabola (Mt 21,23).
Poi la vigna non è infeconda, pare dia frutti, ma questi non vengono consegnati. Infine la conclusione è diversa: non ci sono l’abbandono, la devastazione della vigna, ma un nuovo inizio, un intervento di salvezza, una sostituzione degli operai inetti.
Veniamo alla parabola. Un padrone pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava un frantoio, vi costruisce una torre, la affida a dei vignaioli e se ne va.
Giunto il tempo della vendemmia, invia i suoi servi a ritirare il raccolto, ma ecco la sorpresa: gli agricoltori non vogliono consegnare i frutti. La prima ipotesi cui si pensa è che essi li vogliano trattenere per sé; ma c’è un’altra possibilità, forse più probabile, che non abbiano alcun frutto da presentare. Può darsi che non abbiano lavorato, che abbiano passato il tempo in crapule e gozzoviglie oppure che abbiano lavorato male.
Qualcuno di loro comincia a prendersi gioco degli inviati del padrone, poi gli insulti, infine le percosse e l’uccisione di alcuni servi. Il padrone non si arrende, ama troppo la sua vigna e allora manda altri servi, più numerosi dei primi, ma anche questi non hanno fortuna. Come ultimo tentativo invia il proprio figlio, ma i lavoratori della vigna cacciano fuori anche lui e lo uccidono, convinti di poterla fare da padroni nel campo che è stato loro affidato.
Come nella prima lettura, anche nel vangelo tutti i particolari del racconto hanno un significato simbolico.
Il padrone è il Signore che ha prodigato tante cure e manifestato un immenso amore per il suo popolo (v. 33). La siepe è la Toràh, la legge che Dio ha rivelato al suo popolo per proteggerlo dai nemici, cioè dalle proposte di vita insensate che lo porterebbero alla rovina. I vignaioli rappresentano i capi, le guide religiose e politiche, il cui compito è quello di collocare il popolo nelle condizioni ideali per produrre i frutti che il padrone si attende e che la prima lettura permette di identificare: si tratta delle opere di amore al prossimo e della giustizia sociale.
I due gruppi di inviati indicano i profeti che, prima e dopo l’esilio a Babilonia, sono stati mandati, sempre più numerosi, per richiamare Israele alla fedeltà all’alleanza. Ecco come si esprime Dio per bocca di Geremia: “Dal giorno in cui i vostri padri uscirono dall’Egitto fino ad oggi, ho mandato a voi tutti i miei servitori, i profeti, con premura e sempre, ma non mi ascoltarono, anzi rimasero ostinati” (Ger 7,25-26). La sorte cui sono andati incontro questi uomini è stata drammatica: percosse, lapidazione (2 Cr 24,21), ceppi e catene (Ger 20,2), morte di spada (Ger 26,23). Non dovevano aspettarsi altro: erano i portavoce di Dio e della sua sapienza, troppo lontana dai pensieri degli uomini, assurda, inaccettabile. Ecco perché i vignaioli vogliono impossessarsi del campo, rifiutano ogni altro punto di riferimento, pretendono di gestire da soli “la vigna”. Rappresentano coloro che vogliono fare a meno di Dio e considerano i suoi doni un bene di cui appropriarsi.
Il figlio è Gesù.
Il tempo della vendemmia rappresenta il momento del giudizio di Dio che – questo va tenuto ben presente – non va inteso come la “resa dei conti”, ma come un intervento di salvezza. Mi spiego. Al termine della parabola, Gesù coinvolge i suoi ascoltatori e chiede loro un parere sul comportamento da suggerire al padrone ed essi rispondono convinti: “Il padrone farà perire miseramente quei malvagi” (v. 41).
Questa immagine severa è frutto dell’effervescente fantasia orientale che – come più volte abbiamo rilevato – si compiace nel dipingere quadri con tinte forti.
Ma Gesù segue un’altra logica. Invece di approvare le parole di minaccia e di distruzione pronunciate dai suoi ascoltatori (v. 41), propone l’azione di Dio: il Signore non reagirà distruggendo il malvagio e neppure fingendo che il male non sia stato commesso. Questo rimane, non può essere azzerato. Dio interviene per farlo servire al bene, ne ricava un capolavoro di salvezza. Si può ricordare ciò che Giuseppe dice ai fratelli che lo avevano venduto agli egiziani: “Voi avevate pensato il male contro di me, ma Dio ha pensato di farlo servire a un bene: dare vita a un popolo numeroso” (Gn 50,20).
I vv. 39.42-43 costituiscono la parte centrale della parabola: descrivono morte e risurrezione di Gesù. I capi del popolo prendono il Figlio e lo gettano fuori della vigna. È ciò che è accaduto a Gesù: è stato ritenuto un bestemmiatore, un impuro e per questo è stato portato fuori delle mura della città e giustiziato. Ma Dio, risuscitandolo, lo ha glorificato, lo ha costituito Signore, pietra angolare di un nuovo edificio.
Il risultato finale dell’intervento del padrone è la consegna della vigna ad altri lavoratori che porteranno frutti. Non si tratta di una reazione indispettita del padrone, ma di un suo gesto di amore e di salvezza. Neppure il rifiuto e l’uccisione del figlio riescono a renderlo nemico dell’uomo.
Riferendo questa parabola, l’evangelista Matteo pensava certamente all’infedeltà dei capi del suo popolo e al loro rigetto del messia di Dio. Ma non soltanto a loro; pensava anche alle sue comunità e al mondo intero: ogni uomo è un vignaiolo dal quale il Signore si attende la consegna dei frutti.
La lieta notizia con cui si conclude il brano evangelico (v. 43) è che, malgrado tutti i rifiuti dell’uomo, alla fine Dio trova sempre e comunque il modo di raggiungere il suo scopo e di ottenere i frutti buoni che desidera.
AUTORE: p. Fernando Armellini
FONTE: Settimana News
SITO WEB: http://www.settimananews.it