Il commento alle letture di domenica 4 Ottobre 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
Nell’Antico Testamento è ricorrente l’immagine della vigna o della vite per designare Israele in quanto popolo di Dio, sua proprietà (Is 5,1-7; 27,2-6; Ger 2,21; 12,10-11; Ez 15,1-6; 19,10-14; Os 10,1-3; Sl 80,9…): e tale metafora è ripresa anche dai Sinottici (Mt 20,1-16; 21,33-43; Lc 13,6-9). Il Vangelo annuncia che un nuovo popolo, la Chiesa, è chiamato a “portare frutti a suo tempo” (Mt 21,41), fondandosi sul Cristo, “la pietra che i costruttori hanno scartato e che è diventata testata d’angolo” (Mt 21,42).
Ma guai ad insuperbirci nei confronti di Israele. “«La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l’accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento” (J. Ratzinger). “La Chiesa di Cristo è sorta come «ecclesia ex circumcisione». Il libro santo di Israele è diventato il nostro «Antico Testamento»” (P. Althaus).
Per Paolo, la Chiesa è radicata in Israele. Innanzitutto perché non tutto Israele ha rifiutato Cristo, ma solo una sua parte: Maria, gli Apostoli, la prima Chiesa infatti, come Gesù, appartenevano al popolo ebreo. Inoltre Paolo, nella lettera ai Romani, in un capitolo, l’undicesimo, che abbiamo troppo spesso trascurato con conseguenze drammatiche nelle relazioni cristiano-ebraiche, ci rivela quale sia il “mistero di Israele” (Rm 11,25) e il suo destino, e quale atteggiamento i cristiani debbano avere verso il popolo eletto.
Paolo ha prima affermato: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,2-5). “Il dolore di Paolo per Israele è anche il dolore di tutto il mondo cristiano, il quale con vergogna deve riconoscere di aver contribuito con il suo comportamento verso il popolo giudaico a indurirne l’incredulità” (P. Althaus).
Ma poi Paolo annuncia che, quando tutte le genti avranno accettato di far parte della Chiesa, allora anche tutto Israele si convertirà: “Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio… Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no… Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,2.11.25-29). E la conversione di Israele coinciderà con la resurrezione finale: “Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale…! Quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,12.15). Se la riprovazione d’Israele è stata la salvezza dei popoli pagani, la loro accettazione da parte di Dio sarà la fine dei tempi, la riconciliazione ultima universale, la salvezza messianica escatologica.
L’atteggiamento della Chiesa verso Israele deve quindi essere innanzitutto di venerazione. Paolo si rivolge ai cristiani che non sono di origine ebraica e li ammonisce a non vantarsi nei confronti dei giudei: la Chiesa proveniente dal paganesimo non ha soppiantato Israele, ma è Israele che ha accolto i pagani in sé e ha concesso loro di partecipare alla sua Promessa. Gli etnico-cristiani sono l’olivastro innestato sull’olivo buono che è Israele: è Israele che regge anche la Chiesa formata da ex-pagani (Rm 11,17-18).
Inoltre la Chiesa deve rapportarsi con il popolo ebraico con profonda umiltà: se Dio non ha risparmiato i giudei che sono i rami naturali, come farà a non punire i pagani che diventano infedeli? Il pagano fattosi cristiano, se si allontana dalla fede, altro non resta che un olivastro. Il giudeo che non crede in Cristo continua tuttavia ad essere l’olivo autentico di Dio.
Ci ammonisce il Concilio Ecumenico Vaticano II: “Gli ebrei, a motivo dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i Profeti e con lo stesso Apostolo la Chiesa aspetta il giorno…, in cui tutti i popoli invocheranno il Signore con una sola voce e <<lo serviranno spalla a spalla>> (Sof 3,9). Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune ai Cristiani e agli Ebrei, questo Concilio vuole raccomandare la loro mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo… La Chiesa inoltre, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei…, deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque” (Nostra aetate, n. 4).
Carlo Miglietta