Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 27 Settembre 2020

Il pentimento è lo snodo per seguire Gesù

Anche questa domenica incontriamo nel vangelo una vigna da coltivare, metafora del popolo di Israele, trascurato dai farisei. A questi ultimi Gesù dice: «Pubblicani e prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
È subito doveroso demistificare l’interpretazione che queste due categorie siano migliori dei farisei.

Nella nostra epoca è sorta una certa esegesi “di strada” al riguardo, che esalta la prostituta in quanto abitante della strada, luogo condiviso come residenza di poveri e reietti. Questa situazione di vita verrebbe vista come affine a quella di Gesù, povero, reietto, che da viandante di strada, amico dei poveri, si troverebbe in una condizione analoga a pubblicani e prostitute.

Nulla di tutto ciò! Questa melassa interpretativa, in salsa buonista dimentica o ignora il fatto che le prostitute e i pubblicani che avvicinavano e affiancavano Gesù si erano convertiti alla buona novella da lui annunciata; avevano cambiato vita e, umilmente, non si vergognavano di mostrarsi del Maestro e accanto al Maestro, benché la loro vita di peccato fosse nota a tutti. Allo stesso modo, Gesù gioiva nel mostrarsi con loro, perché da un male estremo erano passati al bene estremo.

L’essere pubblicano o prostituta è stata infatti la malattia che ha permesso a Matteo e a Maria di Magdala, ormai disgustati dal loro peccato, di essere sanati da Cristo, perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,12). Allora, le nostre povertà possono essere esaltate solo se diventano la molla che ci permette di gridare: “Signore salvami!”, e poter cominciare la meravigliosa avventura della relazione con Cristo. È fondamentale disgustare e detestare senza compromessi le proprie povertà per poterne uscire.

Vediamo ora i due fratelli a cui il padre chiede di lavorare nella vigna. Il primo ribatte di non averne voglia, ma poi, pentitosi, ci va. Il secondo risponde subito di sì, ma poi non lo fa. Il primo figlio, sul momento, cerca nella voglia (che non ha) il motore delle sue azioni; è invece il pentimento il motore che lo porta ad andare nella vigna. È interessante vedere da dove attingiamo l’energia necessaria per i nostri atti di obbedienza a Dio: la voglia è il senso dell’impulso istintivo, del nostro rapporto con le cose e con le azioni che dobbiamo affrontare, ma gli atti d’amore autentici non si basano sulla voglia di farli. Una madre che deve allattare per l’ennesima notte insonne non ne ha alcuna voglia, ma lo fa, perché il figlio è da accudire. Quello è amore: non esistono remunerazione, voglia, gradimento, non sono queste cose il punto di partenza di un atto d’amore.

Il secondo figlio dice “sì signore”, ha quindi la volontà, ma non la tenacia.
Allora qual è la forza per fare le cose, per obbedire a Dio e lavorare nella sua vigna? Per il primo figlio è il pentimento: ha un dolore, si risveglia in lui l’amore per il padre e con questo la chiamata ad assolvere i compiti affidatigli. C’è un impulso di risposta all’amore di Dio, il pentimento, la conversione – metànoia in greco – che è il cambiamento del proprio centro logico.

È il pentimento, il non sentirsi a posto, che ha mosso pubblicani e prostitute, verso l’amore gratuito di Gesù. Per fare la volontà di Dio bisogna ricordarsi del proprio sottofondo di pubblicano e di prostituta; del proprio sottofondo di debolezza e di insufficienza.
«È quando sono debole che sono forte» (2 Cor 12,10).

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli


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