Domenica «DELLA PARABOLA DEL PADRONE BUONO»
XXV Dom. Tempo Ordinario A
Mt 20,1-16 (leggi 19,30-20,16); Is 55,6-9 (55,6-11); Sal 144; Fil 1,20c-24.27a
C’è un tratto del volto di Dio che Gesù ha rivelato con chiarezza ed insistenza senza uguali; la preferenza data ai poveri, agli umili, agli ultimi. Essi, a contatto con la benevolenza gratuita e preveniente di Dio, sono destinati ad essere i primi, i ricchi, gli eletti. «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (prima lettura). La logica di Dio è diversa da quella degli uomini, talora, anzi, opposta ed inconciliabile con essa, comunque superiore sempre. Spesso quello che per l’uomo è guadagno, per Dio è perdita; e quello che per l’uomo sta al primo posto, per Dio viene all’ultimo. La parola di Dio, il suo giudizio comportano un radicale rovesciamento di valori: i primi sono gli ultimi (evangelo); i beati sono quelli che piangono; i veri ricchi sono quelli che abbandonano ogni cosa; chi vuoi salvare la propria vita la perde…
Il Dio cristiano è l’«assolutamente-Altro», l’imprevedibile. Nessuna categoria umana lo può «catturare». Egli sfugge ad ogni definizione e rivela continuamente nuovi aspetti del suo mistero. L’uomo, che ha un cuore freddo, che nutre rancori tenaci, che perdona poco e malvolentieri, non smette di valutare Dio col metro della sua mediocrità. Parla con lui a base di numeri, di dare ed avere: una teologia che diventa contabilità. Guardiamo invece il metodo di Dio: i tuoi debiti si scioglieranno come neve al sole. Abbiamo la possibilità di non strisciare per sempre. Non è più bello contemplare la vita dall’alto dell’amore di Dio?
Dobbiamo confessare che proviamo un certo disagio di fronte alla parabola degli operai dell’ultima ora, che hanno fatto appena in tempo a sporcarsi le mani eppure ricevono il salario intero, come gli altri. E non ci sembra giusto il comportamento del padrone, che non accetta le rimostranze di quelli che sono stati assunti al mattino, disprezzando spudoratamente le regole più elementari della giustizia sociale e distributiva. Se davvero il regno dei cieli è simile a tutto questo, si tratta di un universo al di fuori dei nostri principi di coerenza e della nostra logica. E la cosa è ancora più grave, in quanto Gesù racconta questa storia per giustificarsi: deve difendersi dalle malelingue che gli rimproverano la sua preferenza per persone di dubbia onestà e di facili costumi. Ha già risposto una volta che non sono i sani ad avere bisogno del medico, ma i malati (Mt 9,12). Ora, per rinforzare ulteriormente quest’argomentazione, si appella al modo di agire di Dio stesso.
«Sei invidioso perché io sono buono?». In questa frase sta la chiave di tutto il discorso. Di fronte al comportamento insolito del padrone della parabola, noi ragioniamo in termini di diritto, dimenticando la generosità, l’amore, che ha le sue preferenze e le sue motivazioni segrete: «Voglio dare a quest’ultimo quanto a te!». Dal momento che tutto ciò che possediamo l’abbiamo ricevuto da Dio (1 Cor 4,7), quali meriti possiamo far valere? E che diritto abbiamo di protestare? In passato si sentiva a volte, sulla bocca di certi cristiani, frasi di questo tipo: «La chiesa non è più quella di una volta. Invece di essere la casa dei praticanti e delle persone irreprensibili, si volge verso gli indifferenti, gli atei, e verso gente senza arte né parte, che non gode di una buona reputazione…».
Oggi si sente sempre più, dalla bocca di altri di cristiani o degli stessi di prima, frasi che dicono che la Chiesa deve uscire dalle sacrestie e percorrere le vie e le piazze del mondo alla ricerca di coloro che non frequentano, dei lontani, di quanti non credono. Questo significa che la Chiesa si sta finalmente adattando ai modi di fare di Dio? Guardiamoci intorno e prestiamo orecchio alle parole dell’annuncio: sono dell’evangelo? lasciamo sempre l’ultima parola alla bontà e non alla giustizia in senso stretto? incontriamo davvero l’altro o facciamo solo spettacolo? la realtà del regno è davvero viva e operante in mezzo a noi?
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso
«Io sono la salvezza del popolo»,
dice il Signore,
«in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò,
e sarò il loro Signore per sempre».
Nell’antifona d’ingresso, un centone di reminiscenze bibliche, il Signore si proclama solennemente come l’unica Salvezza per il popolo suo, il popolo della sua alleanza. E promette che non esiste tribolazione da cui non salvi, se invocato, esaudendo sempre, intervenendo con potenza, in modo da ristabilire l’alleanza fedele. Egli vuole essere «il Signore nostro», e vuole che noi siamo «il popolo di Lui», in eterno (Sal 4,2; 49,15).
Canto all’Evangelo (At 16,14b)
Alleluia, alleluia.
Apri, Signore, il nostro cuore
e comprenderemo le parole del Figlio tuo.
Alleluia.
Versetto adattato, nell’originale è il cuore di Lidia, commerciante di porpora della città di Tiàtira, che si apre alla predicazione di Paolo. Qui si chiede che il Signore ripeta per noi oggi, il gesto che fù prima ancora del Figlio a Emmaus: l’apertura degli occhi del cuore e il dono della Fiamma dello Spirito Santo in esso, che rendono possibile l’ascolto della Parola del Figlio di Dio annunciata nello Spirito Santo.
Il Signore ormai si avvia a consumare il suo ministero battesimale[1] e trasfigurazionale nello Spirito Santo, che lo conduce a Gerusalemme e alla Croce. Domenica scorsa è stata proclamata la seconda parte del discorso ecclesiale in Mt 18, con la parabola del servo perdonato che non vuol perdonare. La liturgia oggi ci fa saltare al cap. 20, omettendo il 19 che deve comunque essere tenuto presente nella lettura continua personale e certamente nel servizio omiletico. Nella struttura del suo Evangelo, Matteo pone questa parabola “degli operai della vigna”, o anche “degli operai dell’ultima ora”, durante la “salita a Gerusalemme” del Maestro, accompagnato dai discepoli (Mt 19,1 – 20,34). Rispetto alla sezione lucana parallela (Lc 9,51 – 19,28, testo lungo articolato e denso di insegnamenti), Matteo redige poco materiale: la proibizione assoluta del divorzio, che è un crimine contro la carità e contro la divina Volontà (19,1-12); la tenerezza del Signore verso i bambini (19,13-15); l’incontro-scontro con il giovane ricco (19,16-30); la nostra parabola (20,1-16); il 3° preannuncio della Passione e Resurrezione (20,17-19); la richiesta di potere politico dei due figli di Zebedeo (20,20-28); la guarigione dei due ciechi a Gerico (20,29-34).Così la parabola si trova circa al centro della sezione.
La parabola degli operai nella vigna appare soltanto in Matteo e sembra sia una composizione di cristiani «giudei». A prima vista, con questa parabola Gesù sembra voglia apportare un correttivo importante alla promessa della ricompensa che dovranno attendersi i suoi seguaci: contrariamente a quanto riteneva la teologia giudaica, la ricompensa non è tanto l’adeguata remunerazione delle «opere» compiute dall’uomo, ma soprattutto il frutto della sovrabbondante bontà e misericordia di Dio. La parabola ha lo scopo di dimostrare come il Signore non sia condizionato dagli sforzi dell’uomo nell’elargire i suoi benefici: certo Egli non vìola la giustizia, dal momento che ricompensa con rigorosa fedeltà quelli che lo servono fedelmente, ma ciò non gli impedisce di distribuire i suoi tesori anche a coloro che non lo meritano. Come il padrone della parabola così il Signore ha il diritto di mostrarsi liberale con chi vuole, senza che nessuno possa muovergli rimprovero, perché la Sua generosità verso gli uni non và a detrimento della giustizia verso gli altri.
La parabola dovrebbe essere letta con il v. 19,30, che si ripete con un parallelismo inverso in 20,16. Qui dunque si forma una preziosa «inclusione letteraria» che ci offre la chiave di lettura della parabola stessa; non si sa perché sia stata ignorata nella proclamazione liturgica!
Dal punto di vista letterario la parabola sviluppa ed esplica il detto vagante dei «primi-ultimi e ultimi-primi» che Marco riporta a calce dell’insegnamento di Gesù sulla ricompensa dei discepoli (10,31). In fondo il vero significato della parabola, nascosto sotto il velo del linguaggio parabolico, per motivi ben noti (cfr. 13,10-15), è l’abolizione, nel regno messianico, della condizione di privilegio vantata da Israele. Questa è la prima di una serie di «lezioni» che Gesù darà, sempre sotto il velo delle parabole – (cfr. anche calendario lit.) dei due figli (21,28-32); dei cattivi vignaioli (21,33-41) e del convito nuziale (22, 1-14) – sul problema scottante della sostituzione del giudaismo con un altro popolo che darà “i frutti a suo tempo” (21,41).
La parabola è divisa in due parti principali:
- l’assunzione dei lavoratori (20,1-7)
- e la rimunerazione dei lavoratori (20,8-15).
Nella prima parte (20,1-7) il padrone di casa (oikodespótes) va di buon mattino sulla piazza a cercare braccianti giornalieri per la sua vigna. A varie riprese lungo la giornata trova ed assume cinque diversi gruppi di braccianti:
- all’alba (20,1-2),
- alle 9.00 (20,3-4),
- alle 12.00
- alle 15.00 (20,5)
- e infine alle 17.00 (20,6-7).
La seconda parte (20,8-15) si svolge nella vigna. Al momento di fare i conti il proprietario della vigna è chiamato «signore» o «padrone» (kyrios). In questa parte si descrive il pagamento (20,8-10), la protesta dei lavoratori assunti per primi (20,11-12) e la risposta del padrone (20,13-15). La giustificazione del padrone per la propria generosità è un misto di semplici affermazioni e di domande retoriche.
Il titolo tradizionale della parabola è «dei lavoratori nella vigna»; ma in realtà i lavoratori sono un diversivo per il personaggio della parabola che è il proprietario/padrone di casa. Perciò alcuni indicano come titolo più appropriato la parabola «del padrone buono», visto che questi è il personaggio principale, presente nel racconto dall’inizio alla fine.
I Lettura: Is 55,6-9
Il brano dell’AT e proclamato come V Lettura della Veglia della Resurrezione (Is 55,1-11). Le Vie del Signore sono il suo comportamento. Sempre sublimi, incomprensibili per gli uomini a causa del loro «occhio malvagio». Le vie degli uomini sono conseguenti a quest’occhio malvagio. Occorre contemplare le Vie divine, per entrarvi e percorrerle per intero.
La Parola del Signore si rivolge adesso direttamente al popolo. E viene con un imperativo: Cercate il Signore! (Ger 29,13; Mt 7,7). È il massimo precetto, l’immenso tema della «ricerca di Dio». Il Signore promette di farsi trovare (Sal 31,6; 94,8; Am 5,4; Gv 12,35), e se è invocato promette di stare presente. «Trovare il Signore» tuttavia è impossibile. Il paradosso si risolve così, che occorre comunque e sempre “cercare”, verbo che vuole dire in realtà «lasciarsi trovare da Lui», come la Sposa del Cantico. Allora il Signore premia donando se stesso a chi Lo cerca (v. 6).
Ma come “cercarlo”? È semplice. L’empio deve abbandonare la «sua via», ossia i suoi comportamenti nefasti (1,1618; Ez 18,21.27), e così vivrà. L’empio deve abbandonare i suoi disegni malefici e convertirsi al Signore e il Signore avrà sempre pietà del cuore che torna a Lui. È il Dio dell’alleanza, sempre illimitato nel perdono (Sal 129,4.7; Sir 5,6), in modo che sorprende sempre l’uomo (v. 7). Infatti Egli avverte: le «Vie sue», i suoi comportamenti, sono di Bontà. Quanto pensa è solo Misericordia, il perfetto contrario dei pensieri e delle azioni degli uomini (v. 8). Esiste perciò tra le Vie e i Pensieri divini e quelli umani una distanza invalicabile: come il cielo non si congiunge mai con la terra (Sal 102,11; 91,6; Sap 17,1; Rom 11,33), così gli uomini non raggiungeranno il Signore e nemmeno quanto dispone ed esegue (v. 9).
Nei vv. 10-11, non compresi nella lettura liturgica, segue un paragone che ci consola. La parola umana è sempre debole, stolta, capricciosa. Non così la Parola divina. Essa è paragonabile alla pioggia benefica, che non torna al cielo, ma disseta e feconda la terra, la fa produrre, con abbondanza di raccolto, per cui sia si può ancora seminare, sia ci si può nutrire per la vita (2 Cor 9,10), la quale allora prosegue (v. 10). Così è la Parola che procede con amore dalla Bocca divina (Ez 12,25; Mt 5,18). Essa non torna, quando è pronunciata, senza l’effetto voluto, ma anzi adempie la Volontà divina (40,8; Mt 13,8). E provoca la crescita infinita di coloro ai quali è stata inviata (v. 11).
Il salmo responsoriale: 144,2-3.8-9.17-18 Inno di lode
Il Versetto responsorio: «Il Signore è vicino a chi lo invoca» v. 18a, fa ripetere cantando in modo litanico che nonostante la Trascendenza divina, tuttavia il Signore si attiva Lui a rendersi vicino e presente ai suoi che sempre l’invocano.
L’Orante che ha esordito manifestando in modo gioioso, la sua volontà di esaltare e benedire il «Dio suo, il Re» della sua alleanza (v. 1). In parallelismo sinonimico, conferma questa volontà di lode e di benedizione (145,2), che è quotidiana e insieme è perenne, per l’eternità (v. 2). Il contenuto della lode è vario e infinito, perché ruota intorno alla Persona divina. L’Orante ne riconosce e proclama la Grandezza unica, poiché il Signore è l’unico degno di ricevere la lode da ogni essere esistente (47,2). Egli però non si nasconde la nota apofatica, ossia dell’imperscrutabilità e inafferrabilità e incomprensibilità e indicibilità delle Realtà del Signore (Gb 11,7-9; Is 40,28; e spesso nella Scrittura). La mente umana è incapace di scrutarle, non esiste indagine sufficiente e concludente sul Signore. Che deve essere accettato come è, sempre con stupore, con rinnovata sorpresa, con infinita ammirazione, gioia totale che fa salire alla comunione con Lui (v. 3).
Esaminiamo il brano
19,30 «Molti però …:»: la frase, enigmatica all’inizio della parabola, si fa poi chiara alla fine (cfr. 20,16), in cui è dato il senso preciso della parabola stessa. La ripetizione del lóghion sul capovolgimento (v. 16) chiude la narrazione come «morale della storia»: non dimentichiamo pertanto che la catechesi precedente è rivolta da Gesù ai discepoli, i quali chiedono che cosa avranno in cambio, per aver lasciato tutto e seguito il maestro (Mt 19,27-29).
20,1 «Simile è il regno dei cieli»: L’inizio è formato dalla clausola parabolica che richiama il v. precedente. La frase introduttiva «il regno dei cieli è simile…» suggerisce che il regno dei cieli è simile a tutto ciò che segue nella parabola, non solo il padrone della vigna. Come sempre nelle parabole, anche qui è preso in considerazione solo un aspetto della complessa realtà che si cela sotto questa frase tanto comune negli Evangeli e cioè quello della ricompensa.
Secondo il metodo abituale di Matteo il racconto parabolico si avvicina molto ad una allegoria, in cui viene narrata una vicenda simile e parallela alla realtà: i discepoli che hanno seguito Gesù, lasciando tutto, quale ricompensa avranno? L’insegnamento della parabola dunque riguarda «la paga» dei discepoli, esplicitata in precedenza come «la vita eterna» (Mt 19,29).
Si nota anzitutto questo gár, “infatti”, che si riferisce a quanto precede presente nel greco e scomparso in traduzione. “Simile infatti, gár, è il Regno dei cieli a…” L’espressione è semitica e va intesa così: Avviene nel Regno dei cieli, ed in vista di esso, come quando…
In realtà con il giovane ricco la conclusione era stata data solo ai discepoli: “Difficilmente (dyskólōs) un ricco entrerà nel Regno dei cieli” (Mt 19,23); segue il paragone del cammello nella cruna dell’ago, esercizio più agevole (eukopṓterón) che il trapassare le porte del Regno da parte di un ricco (19,24). Qui Pietro poco generosamente avanza che i discepoli lasciarono tutto per seguire il Maestro, ed il Maestro dà due assicurazioni: che i Dodici saranno i giudici finali delle 12 tribù d’Israele (19,25-28); che chi rinuncia a tutto conseguirà la Vita eterna (19,29). Poi viene la clausola finale: i primi come ultimi, alla fine, e gli ultimi come primi (v. 30).Tratto che torna in 20,16, collegando dunque tutto questo alla parabola che segue immediatamente.
«un padrone di casa uscì all’alba: Da notare che è il padrone della vigna in persona che va a cercare gli operai anziché mandare il suo fattore (vedi 20,8) e ciò è molto strano, perché i proprietari di solito non entravano direttamente a contatto con lavoratori sovente sporchi, vestiti con abiti indecenti e comunque rozzi. Questo comportamento indica la sollecitudine del padrone della parabola, che vuole vedere in faccia chi lavora nella sua vigna e vuole stipulare lui stesso i contratti con i suoi operai. È dunque Dio, cui appartiene il Regno che prende l’iniziativa di reclutare gli operai che gli occorrono. L’assunzione di lavoratori a giornata è particolarmente indicata al tempo dei raccolti. Questo fatto potrebbe conferire a Mt 20,1-16 anche un aspetto escatologico.
«la sua vigna»: l’immagine è usata nell’AT per designare il popolo eletto (cfr. Sal 80,9ss; Is 5,1, che sono il salmo e la la lett. della Dom. XXVII per annum A). La chiave per l’interpretazione della parabola è dunque l’immagine della vigna come simbolo di Israele, lo stesso simbolismo che sta alla base della parabola della vigna di Mt 21,33-46. La fonte più esplicita di questo simbolismo è Is 5,1-7: «Il mio diletto possedeva una vigna… la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele». Lo stesso simbolismo vigna/Israele compare in Ger 12,10: «Molti pastori hanno devastato la mia vigna».
Assieme al simbolismo della vigna c’è l’idea del giudizio universale concepito come una messe (vedi Mt 13,39). Il fatto che il padrone della vigna ha bisogno di lavoratori a più riprese indica che il tempo della raccolta è vicino. Alla sera, alla fine della giornata, c’è il regolamento dei conti e la distribuzione delle ricompense. Colui che presiede l’operazione è il signore/padrone (kyrios) della vigna.
Con il suo simbolismo della vigna e del raccolto, la parabola del «padrone buono» ha per oggetto il giudizio finale e va interpretata in tal senso. Il tema trattato nella parabola affronta il motivo per cui gli ultimi arrivati ricevono lo stesso compenso di quelli che hanno lavorato per molte ore. La risposta è che il regno è un dono di Dio e che noi non dobbiamo essere invidiosi della generosità di Dio.
Il simbolo della vigna è fondamentale ancora per il vino che indica la gioia del Convito messianico finale (Is 25,6-12). Ma il Messia si dovrà attendere “sotto la vite ed il fico” (Mich 4,4; 7,1; Ab 3,17), espressione che in forma abbreviata si ritrova in Gv 1,48; questo significa che si deve attendere lavorando nella pace. Non a caso gli stipiti della porta del “santo” nel tempio di Gerusalemme avevano un fregio d’oro raffigurante un tralcio di vite che saliva per riunirsi sull’architrave, il cui significato simbolico era palese: il popolo di Dio, la vigna eletta di Dio, stava intorno al “santo dei santi” (in cui immetteva il primo atrio, detto “il santo”).
E poi Cristo Signore, infine, chiama se stesso “la Vite/Vigna (ámpelos) vera”, aggregazione di tutti i tralci e propulsione di molti frutti, della quale l’Agricoltore è il Padre e la Linfa vitale è lo Spirito Santo (Gv 15,1-8).
La sequela vigna-vite-uva-vino-gioia conviviale si traspone senza spostamenti in Corpo di Cristo-Croce-Sangue-Coppa-Gioia convito nuziale.
Ma per questo, quanto lavoro!
2 Un denaro: il denaro qui non è simbolico, è un’unità del sistema monetario romano, in argento (g. 3,85), dello stesso valore della dracma greca. Portava l’iscrizione e l’effige dell’imperatore Tiberio [cfr; 22,19 (= Mc 12,15 = Lc 20,24)].
Corrispondeva al salario giornaliero di un lavoratore agricolo oppure alla spesa media di una giornata (Lc 10,35; Tb 5,15). Venivano valutati in denari il prezzo del grano o dell’orzo (Ap 6,6), del pane (Mc 6,37; Gv 6,7), del profumo ( Mc 14,5; Gv 12,5), dei debiti in genere (18, 28; Lc 7,41). Gesù è stato tradito non per trenta denari, ma per trenta «pezzi d’argento» cioè trenta sicli[2], vale a dire 120 denari.
«accordatosi»: in gr. symphônêsas, un vocabolo che già conosciamo (cf Mt 18,19). È il lavorare insieme in armonia, in accordo, come nella preghiera appunto. Tra il padrone e gli operai si è convenuto verbalmente; un contratto come si usa ancora tra la gente della campagna, vale la parola data, che non si ritira e che fonda il rapporto per l’intera opera contrattata. Aggiungiamo una nota di d. G. Dossetti, appunti di omelia, Gerico 24.9.1972:
«Mi ha colpito la parola accordarsi. Mi pare che questo nel senso più immediato introduca il concetto di alleanza. L’alleanza chiesta al popolo è di servirlo. In questa parabola sembra non esserci Cristo. Questo mi ha fatto pensare che Cristo sia il denaro: il senso più avanzato della parabola sia questo: il Padre promette fin dal mattino il suo Cristo e poi lo dà a tutti. Non può dare di più ai primi perché quello che dà è tutto, il suo Cristo: agli uni lo dà come frutto dell’alleanza, agli altri lo dà senza alleanza gratuitamente. La dottrina delle “non – opere” si vede in questa luce. La conclusione mi sembra molto bella: non solo appare che Dio dona la ricompensa ma qual è questa ricompensa, il suo Cristo, dato a tutti (sia a quelli del patto che agli altri) gratuitamente. Ciò che è oggetto dell’alleanza che viene dato a Israele e alle Genti – cioè a tutti – è questo denaro che è dato a tutti. Adesso è venuto il momento in cui il denaro non è solo di qualcuno ma di tutti. Viene da questo una grande spinta dolce a dimenticare tutto e a guardare questo fatto, messo dentro all’umanità che rimane ancora nelle sue categorie, ma la riconferma è unica. Noi che siamo servi del Signore dobbiamo esultare per aver ricevuto il danaro e non avere pace finché non sia dato a tutti, agli operai dell’alba come quelli dell’ultima ora, e a tutti i popoli».
3-7 «Uscì verso le nove»: Il Padrone pensando che il lavoro da fare sia troppo esce all’ora terza, e nella piazza, il luogo delle contrattazioni e dei ritrovi (cfr 11,16; 23,7) chiama altre braccia nella sua vigna.
Così continuerà a fare nei diversi momenti della giornata. La giornata lavorativa in oriente andava dal sorgere del sole all’apparizione delle prime stelle e veniva computata, almeno nominalmente, di 12 ore. L’ora prima, terza, sesta e nona scandivano le principali divisioni del giorno e corrispondono rispettivamente alle 6-9; 9-12; 12-15 e 15-18. L’invio degli operai nei diversi momenti della giornata ha solo lo scopo di mettere in risalto l’ineguaglianza delle loro prestazioni, a cui il Padrone attribuirà uguale ricompensa.
«quello che è giusto»: Dopo l’accordo con il primo gruppo, il padrone non specifica il compenso. La sua disponibilità a pagare «quello che è giusto» prepara il terreno per le lamentele da parte del primo gruppo (20,12) e per la risposta del padrone: «Amico, io non ti faccio torto» (20,13). I lavoratori assunti nell’arco del giorno non si aspettavano di ricevere il salario di un’intera giornata: un denaro come i primi assunti.
«andate»: questo comando (v. 4) ricorre anche nel v. 7.
«L’ora undecima (ore 17)»: questo particolare, del tutto inverosimile, sottolinea la «bontà» del Padrone che non dalla necessità, ma dalla sua generosità è mosso ad ingaggiare sempre più operai.
«nessuno ci ha ingaggiati»: non ci sono esclusi, il reclutamento è completo; il Padrone è uscito, con suo scomodo personale, 5 volte, numero (insieme al 50, suo multiplo) del “fare” (vedi nel 5 il simbolismo della mano) e della pienezza dell’opera compiuta.
Si noti: per l’ingaggio degli operai il padrone ha concordato (symphônêsas) con i primi chiamati quella che era una paga secondo le abitudini del tempo; con gli altri che vengono chiamati alle nove, a mezzogiorno e alle tre del pomeriggio promette che darà «quello che è giusto»; invece agli operai ingaggiati verso le cinque di sera non promette niente, gli dice soltanto di andare anche loro a lavorare nella sua vigna.
8 «Quando fu sera»: la giornata faticosa è terminata, il lavoro è compiuto; il Padrone conosce la Legge, Lui per primo l’ha formulata, Lui per primo la rispetta: «Il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino» Lv 19,13 (il testo sta nel «codice di santità»; cfr. anche Dt 24,15; Tob 4,15).
«chiama e paga»: I lavoratori a giornata erano abitualmente pagati la sera stessa per il lavoro svolto. La cosa sorprendente è che il pagamento inizia dagli ultimi arrivati e che tutti i lavoratori ricevono la stessa paga.
«dagli ultimi»: cioè nell’ordine inverso del loro ingaggio. Ciò, che può apparire come un capriccio del Padrone, ha uno scopo didattico ben preciso: mostrare ordinatamente, a tutti, la sua bontà. L’ordine di pagamento, sebbene necessario agli effetti della presentazione scenica (altrimenti come farebbero i primi assunti a sapere cosa hanno ricevuto gli altri?), non è però la parte sostanziale della parabola.
9-10 Vengono gli ultimi, ciascuno riceve 1 denaro, benché non pattuito (cfr. v. 7), la paga di una giornata lavorativa intera. É il «giusto» per il Signore; un gratuito esuberante. Benché in diversa proporzione, agli occhi umani, ricevono un denaro anche gli operai delle ore 3a 6a e 9a ; tutti accolgono la paga con entusiasmo, sorpresi e grati di tanta benevolenza. Il pagamento avviene davanti a tutti, per cui i primi si presentano immaginando di prendere di più, dimenticando il patto per un denaro. E un denaro ricevono secondo contratto.
11-12 «mormoravano»: peccato gravissimo (cfr. ad es. Es 17,1-7). La loro reazione è di mormorazione contro il padrone: il verbo greco gongyzo ha un suono onomatopeico che richiama il borbottio, il mugugno, ed esprime la voce della vigliaccheria, il lamento che serpeggia senza il coraggio di uscire allo scoperto. Esplicitamente l’apostolo Paolo, usando lo stesso verbo, richiama il comportamento di Israele durante il cammino nel deserto: «Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore» (1 Cor 10,10). Sulla base del buon senso, il Padrone si comporta in modo ingiusto, dando la stessa ricompensa per prestazioni disuguali. Gli operai che protestavano infatti non si aspettavano di ricevere di più, perché con lui avevano concordato la paga; essi in realtà volevano che i loro compagni dell’ultima ora ricevessero di meno. Solo così il padrone avrebbe apprezzato la loro fatica.
Il lamento esplicita il pensiero sulla giustizia: denuncia infatti una pretesa ingiustizia e reclama una paga maggiore, perché i primi fanno il confronto con gli ultimi. I primi si lamentano di aver sopportato il peso della giornata e il caldo: questa fatica era prevista e la paga era concordata; solo il confronto li amareggia. Non è il fatto di aver avuto poco che li disturba, ma piuttosto il fatto che gli ultimi abbiano ottenuto ciò che non si sono guadagnato. Chiaramente manifestano la logica di una giustizia mercantile, per cui il costo è in stretto rapporto di proporzione col servizio. La mormorazione degli operai della prima ora serve a provocare la risposta del Padrone, che contiene l’insegnamento della parabola.
13-15 – Puntuale arriva la risposta, data «ad uno di essi » a voce alta, affinché anche gli altri intendano. Il racconto parabolico termina con un intervento diretto del padrone e, attraverso di lui, è il Signore che pone la domanda ai suoi interlocutori che – in base al contesto in cui Matteo ha collocato la parabola – sono i suoi discepoli, i quali chiedono che vantaggio avranno dall’aver lasciato tutto per seguire Gesù.
«amico»: Il discorso diretto del padrone si apre con un vocativo: «Amico, io non ti faccio torto». Non è espressione dolce di affetto, bensì un tipico modo orientale di parlare duro: in greco non si adopera philos, ma hetàìros che indica propriamente un «socio o collega». Nel nostro linguaggio corrisponde a: «Ehi, tu!». Lo usa solo Matteo, oltre a questo passo, nella parabola degli invitati per introdurre il discorso del Signore a quello che non aveva l’abito nuziale (Mt 22,12) e poi sulle labbra di Gesù nei confronti di Giuda che lo bacia nel Getsemani (Mt 26,50). Non conviene quindi dilungarsi in nessuna riflessione sull’amicizia, perché è semplicemente fuori posto. Lo chiama «amico» semmai perché Lui non è «nemico» e gli ricorda il contratto stipulato. È lecito o no che Lui faccia «del suo» quanto vuole, la giustizia ed insieme la bontà. Certo gli ultimi hanno lavorato di meno; ma hanno bisogno come i primi.
I due criteri, la giustizia e la bontà non solo non si escludono, ma alla fine sono il medesimo comportamento. Gli operai vengono rimproverati non perché sono insoddisfatti di quanto ricevono, ma perché criticano il fatto che gli altri ricevano quanto loro; e il datore di lavoro insiste sul suo diritto di essere generoso. Dando agli uni non toglie nulla agli altri.
Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?: ecco il centro; la condotta di Dio è indipendente da ogni giudizio umano (cfr; la lett). Chi può chiedere conto a Dio della sua condotta? L’uomo è il suo servo e non può presentarsi davanti al Signore per vantare diritti: cfr. Lc 17, 7-10, «servo inutile»; inoltre gli operai mandati nella vigna sono disoccupati disposti a farsi assumere per qualsiasi paga venisse loro offerta. L’uomo non ha mai il diritto di presentare a Dio la fattura.
«tu sei invidioso»: (ho ophthalmós sou ponērós) è letteralmente: «il tuo occhio è cattivo». Per l’«occhio cattivo» vedi Mt 6,23. Qui l’immagine dell’occhio è usata per descrivere l’invidia, la gelosia e la mancanza di generosità. I lavoratori della prima ora si risentono della generosità del padrone.
16 Ecco chiarito il detto iniziale, ripetuto in questo versetto; esso fa da cornice alla parabola e si riferisce al particolare del comando di cominciare la distribuzione della paga dagli ultimi (cfr. “Quel denaro è la vita eterna” dal Disc. 87 di sant’Agostino, vescovo). La paga = la ricompensa non è «1 denaro», ma essere stati chiamati a lavorare per Lui, nella Vigna sua.
Chi vi lavora, deve essere contento che anche altri, anche ultimi vi lavorino.
È terribile invece ciò che segue a queste parole: «Molti sono chiamati, ma pochi eletti» (cfr. Mt 22,14); perché come ci ricorda san Gregorio Magno: “molti vengono alla fede, pochi giungono al regno dei cieli
Un autore anonimo del IX sec. aggiunge: «Che noi siamo chiamati per la fede, lo sappiamo; ma se siamo eletti, lo ignoriamo. Ciascuno deve quindi essere tanto più umile in quanto ignora se è eletto. Che Dio onnipotente vi accordi di non essere nel numero di coloro che a piedi traversarono il Mar Rosso, mangiarono la manna nel deserto, bevettero la bevanda spirituale, e tuttavia perirono a causa delle mormorazioni fatte nel deserto, bensì nel numero di coloro che entrarono nella terra promessa e ottennero, lavorando fedelmente nella vigna della Chiesa di ricevere il denaro della felicità eterna, di modo che con il Cristo vostro capo voi possiate, voi sue membra, regnare per tutti i secoli dei secoli. Amen».
La risposta del Padrone scorre su un binario dove la logica si appaia con la bontà verso i più deboli. Egli così risponde “ad uno di quelli” per tutti. E spiega come sia iniqua, anzi anche devastante, la logica salariale moderna e “laica”, ossia atea senza morale, senza spirito, rispondente solo alle leggi di mercato e delle statistiche dove Dio e la carità sono violentemente banditi fuori con il “pari lavoro, pari salario”. I deboli, gli inabili, gli immigrati sono così inesorabilmente eliminati e i forti e “i furbi” sono premiati.
La parabola è ricca di insegnamenti riguardo a Dio: rapporti tra giustizia divina e misericordia divina, generosità di Dio nei confronti degli «ultimi», certezza della ricompensa (e della punizione) nel giudizio finale. Contribuisce a dare solidità al ministero della Chiesa a favore dei più bisognosi nella società, specialmente di quelli che si trovano spiritualmente ai margini.
La fiducia nella generosità di Dio non deve però renderci ciechi davanti al bisogno di cure pastorali per coloro che hanno sopportato «il peso della giornata e il caldo» (20,12). La loro reazione deve essere presa in seria considerazione. Devono essere aiutati a riconoscere la giustizia di Dio, ad apprezzare la generosità di Dio verso i peccatori e a condividere la gioia del pentimento (vedi Lc 15,25-32).
Quanto questa parabola sia scandalosa lo possiamo misurare anche leggendo una parabola rabbinica, ispirata con buona probabilità alla nostra:
«Un re, che aveva ingaggiato molti operai, venne a controllare il lavoro che svolgevano. Notò che uno di loro era più abile e svelto di tutti gli altri; gli chiese allora di accompagnarlo in una passeggiata che durò tutto il resto della giornata. Alla sera gli diede un compenso uguale a quello degli altri che erano rimasti a lavorare. Questi allora protestarono: “Noi abbiamo lavorato duro tutto il giorno e costui, che ha lavorato soltanto due ore, ha ricevuto il nostro stesso salario. Non è giusto!”. Rispose allora il re: “Costui ha fatto più lavoro in due ore che voi in un giorno intero”» (Talmud di Gerusalemme, Berakhot 2,3).
Il contrasto con la parabola evangelica non potrebbe essere più netto: qui vi è una logica meritocratica, mentre Gesù parla di gratuità, di una misericordia che non va meritata, ma accolta con gioia come dono e come amore riversato su tutti noi, tutti fratelli e sorelle, tutti figli e figlie amati da Dio. Di fronte a questo amore non ci sono privilegi da vantare! Facciamoci una domanda: come pensiamo il nostro rapporto con Dio? Come relazione nella grazia o come prestazione meritoria? In verità solo la grazia di Dio può instaurare la comunione con noi; e se cercassimo di andare a lui forti di nostri presunti meriti, non riusciremmo a conoscere il suo amore, sempre gratuito e mai meritato.
II Colletta
O Padre, giusto e grande
nel dare all’ultimo operaio come al primo,
le tue vie distano dalle nostre vie
quanto il cielo dalla terra;
apri il nostro cuore
all’intelligenza delle parole del tuo Figlio,
perché comprendiamo
l’impagabile onore
di lavorare nella tua vigna fin dal mattino.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] Annuncio del Regno, compimento delle opere del Regno per preparare il popolo all’incontro con il Padre.
[2] Sìklos, eb. sequel: «peso » Antica misura di peso (g. 14), divenuta unità di misura giudaica, di argento, equivalente allo stadere o al tetradramma dei Greci. Corrispondeva presso a poco al salario di quattro giornate di lavoro (4 denari) . Per indicare la moneta bisognava specificare : siclo «d’argento» (gr. argyria) (cfr; Mt 26,15; 27,3-9; 28,12.15; At 19,19).
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano