Spesso, leggendo i Vangeli, notiamo come il Signore sembri avere problemi tanto in matematica (con-divide per moltiplicare – Cf. Gv 6, 1-14), quanto, più in generale, in logica («A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha» – Cf. Lc 19, 12-27).
Il passo evangelico odierno è esattamente uno di quelli che «stona» in tal senso. -Curiosa ironia come la pericope di questa domenica si innesti proprio nel momento in cui sono iniziate le scuole…
Ebbene, il racconto evangelico odierno è fortemente articolato e sviluppato proprio su una forte «illogicità», e, più nello specifico, su una palese e incomprensibile «prevaricazione».
Cerchiamo di trarre qualche spunto nel merito, partendo, come ci è consueto, da una parola presente nelle righe del Vangelo proposto oggi dalla Liturgia:
– «Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro» (Mt 20, 10).
Il verbo evidenziato nel versetto appena citato, ovvero «pensarono», ci offre l’opportunità di muoverci nella nostra analisi.
Nel greco originale del testo, «pensarono» è reso con enómisan, che è coniugazione del verbo nomízo.
Questo nomízo è espressione di un sostantivo di estremo vigore (soprattutto in San Paolo – Cf. Rm 7, 8), ovvero nómos, a cui viene reso il senso netto di «legge», ma che, tecnicamente, esprime il significato più articolato di «ciò che è attribuito, assegnato, solito a ciascuno» (ergo «legge»). -In San Paolo nómos («legge») si specchia in antitesi a dikaiosúne, ovvero «giustizia/giustificazione». Senza scendere in esagerati approfondimenti, ci limitiamo ad accennare sommariamente alla dinamica paolina: la sárx («carne») è condizione di amartía («peccato»), per affrontare e risolvere il quale l’uomo si aggrappa alle proprie azioni, alle proprie opere, al nómos («legge») che egli stesso si dà; tuttavia non così, poiché necessaria all’uomo è la «fede» (pístis) a cui risponde la «Carità/Grazia» (cháris) del Signore, relazione (pístis-cháris) mediante la quale l’uomo riceve la «Giustificazione» (dikaiosúne) e può giungere alla vita secondo lo «Spirito» (pneũma) .
In sintesi: non le nostre azioni, le nostre opere, ovvero la «legge» (nómos) per il raggiungimento della Salvezza, poiché a produrre il frutto dello Spirito è la «Giustificazione» (dikaiosúne) mediante la fede.
Schematizziamo: sárx –> amartía –> nómos –> pístis/cháris –> dikaiosúne –> pneũma.
Ma sia ben chiaro: «E la fede e le opere» (Cf. Gc 2, 14-26), poiché ad essere condannate sono le opere intese come «sforzo dell’uomo per rendersi e riconoscersi giusto da sé e per sé» (ecco il nómos), il che lo porta a dimenticare che egli è radicalmente peccatore, quindi bisognoso della «Giustificazione» (dikaiosúne) del Signore. Invero la «fede» (pístis) è come una mano che esce fuori dalle sabbie mobili; certamente è mano che «invoca la Carità» del Signore, ma, al contempo, deve essere mano che «afferra questa cháris», che la fa propria, che rende la «Carità» operosa in essa stessa (nella mano) e per essa stessa (per la mano): «se possedessi tanta fede […], ma non avessi la carità, non sarei nulla» (1Cor 13, 2); «[…] in Cristo Gesù […] vale […] la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5, 6).
Ecco, allora, che la fede senza le opere è nulla (poiché il punto è pístis/cháris); ma le opere senza la fede sono nómos («rendersi e riconoscersi giusto da sé e per sé»).
Ci basti
Di ciò dato atto, ecco che quel «pensarono» (enómisan) ha una profonda e vigorosa intensità, in quanto non è solo un semplice «considerare», bensì un «concreto ed inconfutabile ragionamento logico»; un ragionamento talmente logico «in quanto è usuale a ciascuno»; un ragionamento chiaramente logico «in quanto è costume, ovvero legge».
Non ci piove, insomma: «Non fa una piega» diremmo noi.
Il versetto in questione, quindi, riesce a rendere la propria forza espressiva, con una seguente traduzione:
– «Quando arrivarono i primi, ragionarono con evidente, incontestabile ed incontrastabile logicità, poiché è nella legge delle cose che sia così, che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro».
Tuttavia «ha piovuto»…
Orbene, sulla scia di tale approccio «irragionevole», ecco che anche il fondale stesso della pericope ci offre l’occasione di rimarcare come il Signore ragioni con la «sua logica».
Andiamo a scrutare.
Leggendo, o ascoltando, il passo evangelico di quest’oggi, siamo dinanzi allo svolgimento di una ordinaria giornata, la quale nasce «all’alba» (Mt 20, 1), e si conclude, a rigor di certa coerenza, «Quando fu sera» (Mt 20, 8).
Di che cosa vogliamo questionare qui?
Non si discute sull’ordine naturale del ciclo vitale.
Andiamo, come sempre, al greco del testo.
L’espressione «all’alba» è resa con la formula greca proΐ, ed è la stessa presente esattamente in Mc 16, 2:
– «Di buon mattino (proΐ), il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole»;
nonché in Gv 20, 1:
– «Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino (proΐ), quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro».
Ora andiamo alla circonlocuzione «Quando fu sera», la quale è resa con genitivo assoluto greco opsías genoménes, che è esattamente la stessa costruzione che si trova in Mt 27, 57:
– «Venuta la sera (opsías genoménes), giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù».
Il lettore certamente avrà riconosciuto il racconto della Risurrezione, connesso all’espressione «all’alba»; mentre dalla circonlocuzione «Quando fu sera», sarà risalito facilmente alla sepoltura di Gesù morto in croce.
Ebbene, se nella pericope odierna l’ordine del racconto, ergo della vita, va dall’alba alla sera, e ciò è incontestabilmente inconfutabile, in quanto naturalmente logico e immutabile; cosa accade, invece, nella vicenda di Gesù Cristo?
Ovvero: la «Sua Giornata» va dall’alba alla sera, oppure, al di fuori di ogni schema; rompendo ogni logica; al di là di ogni rigore; rotolando via ogni petrosa norma naturale, si compie «dalla sera all’alba»? -Interessante notare come proprio la Seconda Lettura della settimana scorsa (Rm 14,7-9) sia sintatticamente costruita proprio su questo «diverso ordine consequenziale»: «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi».
Invero il soggetto «noi» procede, così come è logico, «dalla vita alla morte»; il soggetto Cristo, invece, incede, così com’è nella logica del Signore, «dalla morte alla vita»
Perché il Signore può fare delle sue cose quello che vuole: può rendere gli ultimi, primi; rendere i primi, ultimi (Cf. Mt 20, 15-16).
E noi: siamo «sua cosa»? -Non diamo per scontata la risposta, e non siamo troppo frettolosi nel rispondere, poiché il Signore è Colui che ha reso Dio, l’Altissimo, ultimo, svuotandolo fino alla morte, e alla morte di croce (Cf. Fil 2, 5-11)
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.