Il commento al Vangelo di domenica 13 settembre 2020 – Anno A, a cura di Paolo Curtaz. Qui di seguito il testo ed il video.
Il perdono che mi salva
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Il discepolo, invece, decide di spostarle fuori, di riconoscerle come evoluzione malata della rabbia che tutti portiamo nel cuore, dell’aggressività che fa muovere il mondo ma che, se non orientata a costruire, distrugge.
Zelo e passione che da forza vivificante, determinante, essenziale (Gesù stesso ha avuto, documentato, un travolgente scatto d’ira nel tempio) irrancidisce e diventa distruttiva, degenerando nel rancore, nel vittimismo, nell’invidia.
E rabbiosi paiono questi tempi, in cui la situazione sociale problematica creatasi a causa della pandemia, fa emergere i mostri che portiamo in noi. In tutti noi.
Basta leggere i commenti sui social, e l’esasperazione delle opinioni, dalla politica allo sport (e, purtroppo, alla Chiesa), basta accorgersi della progressiva degenerazione dei comporatamenti.
In me abitano luce e tenebre, un “me” che costruisce e uno che distrugge. Una sorta di rissoso parlamento interiore in cui devo alla fine decidere a chi dare la maggioranza.
Essere discepoli non cambia questo dato di partenza. Illudersi di mettere a tacere la minoranza rancorosa o, peggio, ammantarla di buoni propositi, ci impedisce di affrontare da adulti la questione.
Sì, c’è rabbia in me. Un “me” che si sente vittima di ingiustizia. Un “me” che fatica a sopportare chi non la pensa come me, chi mi critica. Anche se sono discepolo, o prete, o suora, o vescovo.
Eppure, come ci ricorda Paolo scrivendo ai Romani, tutto quello che siamo appartiene a quel Signore fuoco divorante che vogliamo seguire.
Allora parliamo di perdono, unico modo di superare ogni rabbia.
Sempre
Storicamente, nella Bibbia, il grido orribile di Lamech, figlio di Caino, che minaccia di uccidere settanta volte sette per uno screzio (Gn 4), è attenuato dalla legge del taglione che pone almeno un freno alla rabbia, introducendo un criterio di proporzionalità nella vendetta: occhio per occhio, dente per dente. Nel Pentateuco già troviamo qualche accenno alla misericordia, sempre però limitata ai fratelli di fede.
Al tempo di Gesù i rabbini suggerivano di perdonare fino a tre volte un torto subito, per manifestare clemenza. Pietro, nel vangelo di oggi, vuole esagerare, proponendo di perdonare fino a sette volte.
Tenero.
Sette volte. Come se il vostro amico che avete appena perdonato per avere sparlato male di voi, tornasse dopo dieci minuti e vi dicesse di avere nuovamente sparlato di voi. Lo perdonate?
E Gesù rilancia: settanta volte sette, cioè sempre. Siamo chiamati a perdonare sempre.
A perdonare a noi stessi, anzitutto, e a chi ci fa del torto. Sempre.
Perché?
Da giudice ad imputato
Perché noi per primi siamo perdonati e con una tale larghezza e generosità che non possiamo che perdonare.
Il piccolo credito che abbiamo verso i fratelli non è nulla rispetto al debito mostruoso che abbiamo contratto verso Dio. E che egli ha cancellato. E di cui non tiene veramente conto.
Il debito del servo è volutamente assurdo: un talento equivale a trentasei chili d’oro. Diecimila talenti è una cifra inimmaginabile. Il Prodotto Interno Lordo di una nazione come l’Italia. Mai e poi mai sarebbe stato saldato. Eppure quel debito viene condonato, non il debito dell’altro servo che, pur dovendo una cifra consistente al collega, circa duecento giornate lavorative, non ha di che pagare.
La reazione del padrone è feroce: sei chiamato a perdonare perché ti è stato condonato molto di più.
Ecco la ragione del perdono cristiano: perdono chi mi ha offeso perché io per primo sono un perdonato.
Non perdono perché l’altro migliori, o si converta, o si intenerisca.
A volte l’altro non sa nemmeno di essere stato perdonato e può disprezzare il mio gesto.
Non perdono perché l’altro cambi, ma perché io ho urgente bisogno di cambiare!
Il perdono mi è necessario. Voglio perdonare e vivere da riconciliato.
Voglio superare rabbia e vittimismo. Voglio dialogare, accogliere, ascoltare. Voglio accogliere in me ogn aspetto, anche quello dell’irruenza, dello zelo a volte eccessivo, ma cerco (la vita è fatta di tentativi! Anche la vita spirituale) di orientarla verso qualcosa che costruisce, non che distrugge.
Il perdono mi situa in una posizione nuova, diversa, mi rende simile a quel Dio che fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti.
Consigli
Non perdoniamo perché siamo migliori e il perdono non è un’amnesia.
Dire perdono ma non dimentico fa sorridere. Perdono perché scelgo di perdonare, perché voglio perdonare. Vederti mi riapre le ferite, sto male come un cane, ma ho scelto la strada della libertà.
Per molte persone che hanno avuto la vita rovinata dalla superficialità e dalla cattiveria altrui è già un grosso risultato non augurare la morte, ma la conversione di chi mi ha ferito.
Ti perdono e prego che tu ti penta del male che mi hai fatto.
Non aspettiamo mai il perdono perfetto, quello angelico, straordinario.
Perdoniamo come riusciamo, al meglio delle nostre capacità e delle nostre forze.
Perdoniamo perché siamo perdonati, perché il perdono ci rende straordinariamente liberi.
E se l’altro considera il perdono una debolezza? È un rischio da correre, è un rischio che Gesù ha corso, perdonando i suoi assassini dalla croce. E, pure, io credo, noi crediamo, che quel paradosso smuove i cuori. Non tutti, forse, ma li smuove.
Figli del perdono
Quanto è adulto e virile il perdono!
Quanto è forte e deciso!
Quanto è eroico e umano!
Abbiamo bisogno di donare e ricevere il perdono, di vivere da figli della riconciliazione.
Di accettare il perdono degli altri, senza rivendicazioni e ripicche.
Di chiedere perdono, ammettendo il nostro limite. Soprattutto ora. Soprattutto oggi in cui sembra che ogni remora cada, che ogni violenza personale e collettiva trovi una giustificazion.
Le famiglie, le società, la Chiesa cambierebbero volto se vivessimo meglio il perdono!
Come ha intuito il grande Giovanni Paolo, riprendendo e ampliando Isaia: non c’è pace senza giustizia.
Ma non c’è giustizia senza perdono.