Commento al Vangelo del 6 febbraio 2011 – Paolo Curtaz

Quinta domenica durante l’anno

Is 58,7-10/ 1Cor 2,1-5/ Mt 5,13-16

Sapidi e luminosi

Sono assolutamente d’accordo con voi.

Che stridore leggere le parole sulle beatitudini in queste settimane in cui passiamo il tempo a spiare dal buco della serratura.

Che disagio farlo in un momento in cui tutti danno il peggio.

Dobbiamo forse rassegnarci e lasciar perdere?

Tenere la fede chiusa in una scatoletta da tirare fuori la domenica e il resto della settimana “si salvi chi può”?

Ha senso, davvero, realisticamente, tenere nel cuore una pagina come quella delle beatitudini e cercare di orientare la propria vita alla luce di quella Parola?

Domande spinose, certo. Domande che si sono posti anche i primi cristiani, che hanno fatto i conti con la fatica della quotidianità, con le incomprensioni della comunità nascente, schiacciati fra una religiosità tradizionale totalizzante (l’ebraismo) o ininfluente (la religione romana tradizionale) e una vita sociale e politica aggressiva e decadente.

Proprio come oggi.

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Gesù e le beatitudini

Gesù vive le beatitudini che proclama. E ci svela il volto di un Dio diverso dalle nostre paure, e di un uomo che è all’opposto di ciò che vorremmo. Se il mondo esalta i belli, i forti, gli arroganti, gli spregiudicati, i falsi, gli ambiziosi, Dio ci svela che un cuore mite, sincero, fiducioso, pronto a portare le conseguenze delle proprie azioni costruisce una nuova umanità.

Gesù, dicevamo, non esalta la sfortuna, ma proclama beati coloro che piangono e i poveri e i perseguitati, perché proprio a loro Dio destina il suo messaggio e, come diceva magnificamente Dostoiewskj, nella sofferenza la verità si fa più chiara.

Beati noi, se cerchiamo di imitare le scelte del Signore. Beati noi, se non ci spaventiamo di quello che accade, beati noi se non ci lasciamo prendere dallo sconforto perché il mare che attraversiamo è agitato e ci manca la fede.

Ma davanti alla perplessità, alla fatica di vivere questa è pagina Gesù, invece di abbassare il tiro, lo alza. Non mette dei bemolle, non cerca compromessi. Alza la posta in gioco: se il sale perde il sapore, con che cosa lo possiamo salare?

Sapori

La fede insaporisce la vita, il vangelo è un pizzico di sale che dona sapore a tutto il resto.

È vero: chi fra noi ha fatto esperienza della bellezza di Dio sa che la sua vita è cambiata, che è stata illuminata dalla Parola, che vede se e gli altri in maniera diversa, che possiede una chiave di lettura della storia, della grande Storia e della propria, piccola storia, innovativa: il mondo non è un susseguirsi di eventi violenti ed inesplicabili, ma la manifestazione del grande progetto d’amore che Dio ha sull’umanità.

Ma, ammonisce Gesù, il terribile rischio è che il sale prenda umidità.

Nonno

Ero molto piccolo ma l’aneddoto me lo ricordo bene. Durante la crisi di Cuba, quando la Russia portò dei missili sull’isola e l’America instaurò un blocco navale, per quattordici giorni il mondo fu sull’orlo della guerra nucleare. Mio nonno, che ben si ricordava quanto aveva patito negli anni della guerra, prese il suo motocarro e corse a comperare una decina di quintali di sale, che rimasero in soffitta fino a quasi tutti gli anni novanta. Per lui l’assenza del sale era stata una sofferenza inaudita, e non voleva ripeterla. È prezioso il sale: non per niente era dato come paga ai soldati romani, il salario, appunto.

Abbiamo ricevuto sale, sapore dal vangelo. Ma siamo anche chiamati, dice il Signore, a diventare sale.

Insipidi

La sensazione, però, è che siamo diventati insipidi.

Non c’è bisogno di molto sale per insaporire una pietanza, non abbiamo bisogno di folle di cristiani per insaporire la società. Non necessitiamo di molti cristiani, ma di cristiani che amino molto e che credano in ciò che dicono.

Il dramma del nostro tempo, in occidente, è proprio quello di sperimentare un cristianesimo senza Cristo, di una religione senza fede, di un culto senza celebrazione.

Dobbiamo pagare un prezzo alto ad un cristianesimo culturale e sociale che ancora permea la nostra società, ma che non è più sufficiente a creare discepoli. Un cristianesimo che si riduce ad abitudine, a tradizione, a etica, a solidarietà, ma che non dona più sapore alla vita.

Luce sotto lo sgabello siamo diventati, timorosi di essere trasparenza di Dio, attenti a proporci con un cristianesimo “politicamente corretto” con tutti i distinguo e le precisazioni.

Ci vergogniamo, troppo spesso, di essere appartenenti ad una Chiesa che presta il fianco a facili critiche ed ironie.

Suggerimenti salati

Isaia ci svela il modo concreto di essere luce e sale: attraverso l’amore, attraverso la carità fattiva che si piega verso il povero e il sofferente. Per un cristiano il gesto d’amore, lo spezzare il pane diventa gesto teologico, esplicitazione d’amore. Oggi è un compito ineludibile della Chiesa restare con i poveri, trovando modi nuovi di vivere l’immutato Vangelo, proponendo non solo gesti di elemosina, ma stili di vita che contrastino la povertà dilagante, il profitto e l’economia al centro delle scelte, l’egoismo e l’edonismo come ammiccanti soluzioni di vita.

Paolo ci ricorda, a partire dalla sua esperienza, che la logica di Dio è diversa dalla logica del mondo: è una logica crocifissa. Il metro del nostro risultato è nel cuore di Dio, non nelle statistiche e nelle percentuali: anche se agli occhi del mondo questa disponibilità, questo amore è perdente, inutile, insignificante, anche se continuamente lo spettro della battaglia infine vinta dalle tenebre ci inquieta, noi – figli della luce – ci fidiamo del Signore e come lui amiamo di un amore totale e talora sofferto, sapendo che la sconfitta apparente di Dio è, in realtà, la salvezza del mondo.

Animo, amici, insaporite il mondo.

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