Commento al Vangelo di sabato 15 Agosto 2020 – Comunità Monastica Ss. Trinità

1270

Al culmine della stagione estiva, quando la calda luce del sole avvolge ogni cosa nel pieno del suo fulgore, la Chiesa ci fa celebrare il mistero di Maria assunta in cielo nella gloria di Dio. È una festa luminosa, perché ci fa contemplare il pieno compimento del disegno di Dio in una creatura e quindi ci fa già pregustare il destino di gloria a cui tutti siamo chiamati. Come bene recita l’odierno prefazio: «In lei, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero della salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza». Maria è colei che si è lasciata avvolgere completamente dalla luce della grazia, si è lasciata tutta ‘vestire’ – corpo e anima – dal sole divino, non sottraendo nulla al suo calore (cfr. Sal 18/19,7). Ella è veramente la «donna vestita di sole» (Ap 12,1) di cui parla l’Apocalisse nella prima lettura, immagine viva della Chiesa, adorna della bellezza e dello splendore di Dio (cfr. Sal 44/45,12.14).

Ma che significa che Maria è stata assunta in cielo in corpo e anima (cfr. colletta)? Il verbo usato nei testi eucologici (orazioni e prefazio) ha sempre una forma passiva e rimanda quindi a un’azione di Dio: è Dio che ‘innalza’, che ‘assume’ a sé Maria nella gloria del cielo. Maria diventa partecipe della gloria del Figlio non per forza propria ma per dono di Dio. Quel dono, quella grazia di cui è stata ricolmata fin dal primo istante della sua vita, ora la conduce a condividere la sorte beata di colui che ha generato. Il ‘sì’ pronunciato nel momento dell’annunciazione e ripetuto nel momento della passione e morte del figlio suo, non può che sfociare nel ‘sì’ della definitiva comunione con lui nella luce della risurrezione. Quel Figlio, che formava con lei un solo corpo nel suo grembo di madre, ora l’ha voluta accanto a sé nel regno del Padre suo. Un antico testo, attribuito a Modesto di Gerusalemme, lo dice espressamente: «Nella sua qualità di Madre tutta gloriosa di Cristo Salvatore nostro Dio, datore della vita e dell’immortalità, Maria è vivificata da lui; ella gli è per sempre congiunta con il corpo nell’incorruttibilità. È lui che l’ha risuscitata dal sepolcro e l’ha presa con sé, nella maniera che soltanto lui conosce».

Nel vangelo di questo giorno assistiamo all’incontro tra Maria ed Elisabetta, due donne che hanno molto da dirsi riguardo all’opera sorprendente compiuta in loro dal Signore. Due donne unite da un segreto che aspetta l’ora di essere condiviso nei modi e nelle forme che solo a loro è dato di attuare. Appena Elisabetta vede Maria venire da lei e ode la voce del suo saluto prorompe in un canto di gioia: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!…» (vv. 42-45). La prima parola che ella pronuncia è una benedizione, che coinvolge nello stesso tempo la madre e il figlio. La madre è benedetta a causa del figlio che porta in grembo: non vi è altro motivo per cui Elisabetta possa ‘dire-bene’ di Maria. Elisabetta ‘vede’ l’opera misteriosa e stupefacente del Signore in Maria, forse perché per prima ne ha sperimentata tutta la potenza e grandezza. E di  fronte a ciò che il Signore è in grado di fare in poveri e deboli creature non può che esprimere la sua lode e il suo stupore. La benedizione diventa allora il solo linguaggio capace di far entrare in quell’orizzonte buono e positivo aperto da Dio perché, affermando il ‘bene’, cambia anche il modo di vedere la realtà e quindi di conoscerla nella sua verità. Coltivare la capacità di benedire può essere anche per noi un prezioso aiuto e un efficace antidoto contro il degrado ambientale, culturale e sociale del mondo che ci circonda e contro ogni bruttura che va sfigurando sempre più le relazioni umane.

L’altra parola che Elisabetta pronuncia è una beatitudine: «E beata colei che ha creduto (hē pisteúsasa)…» (v. 45). Proclamare ‘beata’ una persona significa riconoscere in lei il volto di quella felicità a cui tutti – consciamente o inconsciamente – aspiriamo e che non può, in ultima istanza, che venire da Dio. È la prima beatitudine che risuona nel terzo vangelo e non poteva che essere indirizzata a Maria, la credente per eccellenza, colei che ha aderito totalmente alla parola del Signore tanto che questa ha potuto farsi carne in lei. Maria è diventata madre del Signore perché ha anzitutto accolto nella fede quella parola che veniva da lui ed è beata più per la sua fede che per aver portato nel ventre la carne del Figlio di Dio (cfr. Lc 8,21; 11,27-28). Dal canto suo, Maria riconosce la verità delle parole di Elisabetta tanto che nel suo cantico di lode le riprende e le riafferma («D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»: v. 48b), aggiungendovi però un’ulteriore motivazione. È come se ella dicesse: «Sì, mi chiameranno beata, ma soprattutto perché è Dio che ha fatto in me cose grandi, è Lui che mi ha guardata nella mia povertà e piccolezza». È l’iniziativa di Dio, il suo agire compassionevole e misericordioso che si china sui poveri e sugli umili (cfr. Lc 6,20-23) a ‘fare grande’ Maria, a renderla beata. Anche se non va dimenticato che tutto questo ha potuto realizzarsi perché in Maria il Signore ha trovato un’anima umile e accogliente, pronta a fargli spazio, a lasciarlo agire. Così si può dire che è la fede che lascia a Dio le mani libere di agire, che lascia al suo braccio la forza di spiegarsi (cfr. Lc 1,51), è solo la fede che gli permette di compiere meraviglie. «Se aveste fede quanto un granello di senape…» (Lc 17,6).

«Hai innalzato alla gloria del cielo in corpo e anima l’immacolata Vergine Maria, madre di Cristo tuo Figlio» (colletta). La liturgia ci presenta il mistero dell’Assunta anzitutto come un mistero di ‘innalzamento’. Quel Dio che si compiace di innalzare gli umili (cfr. Lc 1,52), ha voluto che fosse Maria la prima umile innalzata in cielo. Così in lei tutti gli umili, i poveri, i piccoli della terra tornano a sperare perché una ‘loro sorella’ ha già conosciuto la beatitudine della comunione con il Risorto riservata anche per loro.

Se in Maria ci è dato di contemplare in anticipo ciò che saremo – dei risorti in Cristo, appunto –, già in questa vita dovremmo vivere nella luce della risurrezione, dovremmo vivere un’esistenza ‘risorta’, perché ormai siamo già nel tempo della salvezza, nel tempo del regno già presente tra noi, nel tempo della morte già vinta. «Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Se la primizia è risorta, anche il resto presto la raggiungerà. E Maria è il primo frutto di questa umanità redenta e risorta, è la prima donna che ha avuto il coraggio e l’audacia di credere che è possibile, già su questa terra, vivere un’esistenza da risorti, che  è possibile fare della risurrezione di Cristo il senso globale e definitivo di tutta una vita. È bello allora intravedere in quella espressione (felicemente ora riportata nella nuova traduzione CEI), con cui inizia il vangelo di questo giorno, un’allusione, forse neanche troppo velata, al mistero di un’esistenza risorta che sente l’urgenza e la fretta di portare il lieto annunzio di Cristo al mondo:

«In quei giorni Maria si alzò (anastâsa, verbo tipico della risurrezione!) e andò in fretta verso la regione montuosa…» (Lc 1,39).

Fonte: Monastero Dumenza