don Alessandro Dehò – Poesia al Vangelo del 9 Agosto 2020

Un Dio distratto per amore

Mi verrebbe voglia di chiedere al Signore il perché di tanta solitudine. Perché decide di andarsene sul monte, solo, in disparte, a pregare mentre costringe i discepoli ad una traversata notturna e solitaria? Ma sono domande che non avrebbero risposta, la pagina evangelica non ci permette ricerche in questa direzione, quello che le parole fanno è semplicemente: descrivere l’esistente, e non sto parlando di duemila anni fa. La pagina è la descrizione del presente. Ci piaccia o no, siamo soli, imbarcati nell’avventura di raggiungere l’altra riva, il vento è quasi sempre contrario e il silenzio di Dio una costante da accogliere.

Mi verrebbe voglia di chiedere a Gesù il perché di tanto silenzio, se davvero ha senso costringerci a una vita così, se non sembra troppo pesante il compito di remare contro venti sempre troppo contrari ma nemmeno a questo troverei risposta, e allora preferisco credere che anche Gesù sia triste, solo, in disparte, almeno preoccupato. Come può rimanere tranquillo un padre quando i figli stanno per morire?

Ecco, questa pagina mi aiuta ad immaginare la preoccupazione di Dio. E quindi quella di Gesù per i suoi amici costretti su quel guscio in balia dei venti. Immagino allora preghiere distratte le Sue, come quelle delle mamme quando un neonato dorme nella stanza accanto, come quelle dei vecchi sposi insieme da una vita quando uno dei due sta morendo, e si contano i respiri e si pensa sempre che quello appena espirato sia l’ultimo. E si pensa di morire con lui.

Ecco questa pagina mi fa immaginare un GesĂą che si distrae per amor nostro.

Nella barca intanto si fa quel che ci può, difficile che la traversata della vita sia tranquilla, anche quando tutto sembra andare per il verso giusto c’è sempre quell’inquietudine di fondo, quella paura di cadere fuori dal bordo degli eventi e poi il vento, è possibile che ci sia sempre questo vento contrario?

Quelle del Vangelo sono immagini, ma sono immagini elementari, tutti possiamo ritrovarci in quella traversata notturna, non esiste immagine migliore per definire lo spaesamento che spesso ci prende quando non siamo più giovani ma non siamo abbastanza vecchi da poter tirare i remi in barca, troppo lontani dal porto di partenza e a distanza incerta sul possibile porto d’approdo. Intorno: il buio. E le onde. Nere. Che sembrano azzannare ogni nostro tentativo di vita.

Poi quella scena facile da decifrare ma difficile da reinterpretare: Gesù, sul finire della notte (come a rimarcare che la notte comunque dobbiamo attraversarla da soli) cammina incontro ai suoi discepoli. Non un miracolo originale, tante tradizioni religiose narrano del sogno di camminare sul mare, comunque efficace: se il mare è simbolo della morte, del caos e della paura Gesù lo domina, ci cammina sopra, lo rende abitabile.

Ed è tutto chiaro ma io non capisco cosa voglia dire per noi. Con sincerità lo dico, cosa significa che Lui domina le mie paure? Che Lui è più forte del mio smarrimento? Come mi cammina incontro oggi? E non mi si dica che è una pace che si sente nel cuore, non ci credo, non è la sua grammatica, Lui si è fatto carne e si affida al pane al vino al corpo e non a un vago sentire. Cosa significa per me, per noi, oggi, quel suo camminare sulle acque, quel suo venirci incontro?

Io non lo so, davvero non lo so. So solo che non mi basta che lui cammini. Io vorrei imparare a non morire dentro le mie di paure.

Forse è questo che pensa Pietro. Che sia Gesù a camminare sulle acque serve a poco, siamo noi che vorremmo imparare a sopravvivere. E Pietro chiede di essere abilitato al miracolo. Gesù lo chiama e lui obbedisce. “Vieni”, dice Gesù. Non aggiunge altro.

“Vieni” come unico antidoto alla paura.

“Vieni” forse è davvero tutto qui. Forse la fede è questione di imparare a sentire il richiamo alla vita che il mondo ci canta continuamente, forse fede vera è riuscire a percepire quel “sussurro di una brezza leggera” per dirla con Elia, prima lettura, quel silenzio sottile che abita anche ogni tempesta e che ci chiama a diventare quel che siamo chiamati a essere. Uomini e donne a Sua somiglianza. Forse la fede è accettare le tempeste e pure il vento contrario, ma con la sicurezza che ogni esperienza della vita, in fondo, ci chiama a nuova comprensione di ciò che siamo, ogni esperienza, anche la più dolorosa, ci invita a rinascere, ogni esperienza è un invito a stupirci per ciò che possiamo diventare. Ogni istante, soprattutto il più drammatico, non è altro che la possibilità (non scontata) di venire ad uno stadio di maggior consapevolezza di sé.

Pietro si fida, e non è facile, tiene gli occhi su Gesù, è lui il profilo di uomo che può muovere decisioni. Siamo chiamati a camminare nel mare in tempesta o nell’incertezza liquida del quotidiano, ma lo possiamo fare solo se siamo innamorati di chi ci chiama. Il mare in tempesta è affrontabile solo da occhi innamorati. Solo gli innamorati accettano il rischio di cambiare, accettano il rischio di perdersi per raggiungere l’amato.

Poi è una vita che rischia di scivolare negli abissi ma è anche una mano, una presa forte, che tiene a galla. O forse, appena prima, è la capacità di chiedere “aiuto”.

Io non lo so cosa sia successo duemila anni fa su quella barca ma mi pare che oggi questo brano ci chieda semplicemente di fidarci della vita, di credere che ogni esperienza è una gravidanza che ci partorisce (spesso nel dolore) e che per rinascere quindi bisogna essere innamorati ma anche saggi, della saggezza di chi sa chiedere aiuto prima di affogare.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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