Il Vangelo di questa domenica è la prosecuzione immediata del brano della settimana scorsa (Cf. ERBA), ed anche la pericope odierna è gravida di significato e di innumerevoli spunti, tra i quali ne proponiamo solo alcuni.
Ebbene, seguendo lo schema ad elenco adoperato sette giorni or sono, anche quest’oggi tenteremo di proporre alcuni germogli esegetici, che possano supportare un approccio più profondo al testo evangelico.
1-«Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla» (Mt 14, 22).
Il verbo greco adoperato per «costrinse» è enágkasen (piccola nota di pronuncia: quando in greco alla lettera «gamma» [γ, resa in traslitterazione con «g»] fa seguito un’altra gutturale, ovvero «kappa» [k] o «gamma» [γ] o khi [χ], la pronuncia di questa «g» cambia in «n». Quindi si scrive enágkasen, ma si pronuncia enánkasen).
La radice del verbo anagkázo (da cui la coniugazione enágkasen), ovvero √agk (che abbiamo detto pronunciarsi «ank»), esprime l’idea e il concetto del «piegare» (Cf. «anca/angolo/Ancona»).
Ecco, da ciò potremmo trarre un primo spunto esegetico.
Invero, i discepoli erano coloro che, poco prima, dopo che Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, avevano distribuito questo prodigio alla folla. Per dirla con semplicità: erano i ministri di Colui che aveva compiuto quello strabiliante portento e, in quanto uomini (chi non avrebbe provato ciò), si sentivano verosimilmente privilegiati per quel ruolo, nonché «gonfi» di una certa qual boria.
Ma Gesù li sollecita subito ad andarsene, ad allontanarsi da quella circostanza di tentazione: li sollecita fortemente (il verbo anagkázo letteralmente significa «costringere [anche con la forza]») ad abbassarsi, a piegarsi, a rimanere nell’umiltà, a tendere all’umiltà.
Difatti così come la folla avrebbe dovuto comprendere che il Messia non era quel «bellicoso guerriero», quel «portatore di benessere (solamente) materiale» che la maggior parte degli Ebrei attendeva, bensì sarebbe stato «colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37), anche i suoi discepoli, che per lungo tempo avrebbero perseverato nel fraintendimento, persino anche dopo la Risurrezione (Cf. At 1, 6: «Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?”»), dovevano compiere un cammino di discernimento e di comprensione, fronteggiando le svianti tentazioni rese dal mondo e dal maligno (Cf. Mc 10, 35-37: «Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro […] Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”»).
2-«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario» (Mt 14, 24).
In tale versetto sono interessanti il verbo basanízo («agitare») e il sostantivo kũma («onda»).
Tecnicamente il verbo basanízo, prima di arrivare a significare «agitare», letteralmente vale «mettere alla prova».
Il nome kũma, poi, certamente intende «onda», ma propriamente esprime il senso del «gonfiore».
Ecco, quindi, un secondo spunto esegetico, che possiamo ricollegare al punto precedente.
Il prodigio che Gesù fece, ovvero la moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu fatto chiaramente per sfamare la folla, ma potrebbe assurgere anche a occasione tramite la quale il Signore voleva «esaminare», ovvero «mettere alla prova» i suoi discepoli. Quel mare vorticoso, che questi ultimi stavano affrontando con timore nella barca, era anche quello che, con tremore, turbava, inquietava e probabilmente tentava il loro animo: possiamo fortemente pensare come i discepoli fossero continuamente tormentati da tante incomprensioni e incongruenze, che scaturivano costantemente dalle parole e dagli atti di Gesù, e la tentazione della vanagloria certamente sarà stata molto presente (Cf. Lc 9, 54: «Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”») –è da notare, poi, come molto spesso la «barca», nei Vangeli, arrivi a rappresentare proprio la Chiesa, ovvero tutti noi…
Ma Gesù, il Rabbi per eccellenza, non disdegna di mettere alla prova i suoi discepoli; consente il «mare agitato dalle onde»; permette che i momenti di tentazione impregnino i discepoli (anche noi siamo discepoli) e nascano in corpo a questi, affinché costoro possano temprarsi: Egli che, «messo alla prova» non disdegnerà di «essere gonfio»; ma non di boria, bensì di percosse.
A chiusura di questo punto, altre due brevi note.
Il termine kũma («onda») si traduce anche con «feto»: ecco che Gesù, infatti, ci invita a non lasciarci travolgere dalle vorticosità del mondo, ma a rinascere nuovi, ovvero santi (in ebraico kadásh [«nuovo»] e kadósh [«santo»] sono lo stesso) con Lui, in Lui: «Gli disse Nicodèmo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 4-5).
Il verbo basanízo («agitare») è lo stesso verbo che viene usato in un altro passo matteano: «Ed ecco, [due indemoniati] si misero a gridare: “Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci [basanísai] prima del tempo?”» (Mt 8, 29). Ebbene, l’inganno del demonio è quello di farci credere che sia il Signore a renderci tormento: invece è il demonio stesso la fonte di ogni «mare mosso». Tuttavia Gesù Cristo può permettere queste tempeste, può permettere che noi siamo travolti dalle tentazioni, affinché abbiamo a ricercare il suo aiuto; affinché abbiamo a riconoscere la necessità del suo aiuto; affinché possiamo forgiarci: così come ogni buon padre. Il buon padre, invero, man mano che il figlio cresce, allenta di tanto in tanto e piano piano il suo abbraccio, consentendo a quest’ultimo di maturare, di usare autonomamente la propria libertà lungo il cammino, anche se qualche inciampo potrebbe cagionare al figlio delle cadute, lacerando il cuore del padre, il quale, comunque, rimane sempre vigile e pronto, quando il pianto del figlio dovesse reclamare il suo intervento di soccorso. Ma la libertà del figlio conta più di ogni lacerazione del cuore per il padre.
3-«Ma, vedendo che il vento era forte, [Pietro] s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”» (Mt 14, 30).
Il soggetto di questo versetto è Pietro, che significa «pietra» (Cf. Mt 16, 18; Gv 1, 42); ma nessuna «roccia» del mondo è solida senza Gesù.
Invero, il grido di Pietro che cominciava ad affondare è «Signore, salvami!» (kúrie sõsón me); ma il buon ebreo Kefa (ovvero «Pietro»), nella sua lingua, ebbe propriamente a gridare «Yeshúa», ovvero proprio il nome «Gesù», il quale significa esattamente «YHWH (Signore) salva».
È una nota interessante poter rilevare come in questo caso Pietro abbia reso una prima professione di fede, anticipando quella che di li a breve avrebbe proclamato in maniera poderosa a Cesarèa di Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16).
4-Concludiamo con una particolarità: ghezéra shavá.
Questa circonlocuzione ebraica rappresenta propriamente una tecnica ermeneutica adoperata dai rabbini: se una parola o una frase appare in due brani della Scrittura, codesti due brani, in cui sono presenti le due parole o le due frasi, sono tra loro in stretta relazione e in diretto collegamento; e quello che vale nell’uno si ricalca e si applica nell’altro.
Ebbene, chiarito il valore del principio ermeneutico della ghezéra shavá, andiamo al versetto che ci riguarda: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo» (Mt 14, 23).
L’espressione «Venuta la sera», che in greco è resa con il genitivo assoluto opsías genoménes, è esattamente la stessa di Mt 27, 57: «Venuta la sera (opsías genoménes), giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù».
Quante relazioni potremmo trarre da tale accostamento.
Ce ne basti una (lasciando al lettore la propria meditazione): l’unità col Padre, ovvero farsi Uno con la volontà del Padre.
Invero, così come accogliendo la Croce di Gerusalemme, Gesù ebbe a compiere «fino al fine» (Cf. Gv 13, 1; Gv 19, 28-30) la volontà del Padre, anche in quel momento di isolamento in Galilea, dopo aver congedato la folla sazia, il Figlio ribadiva al Padre la sua ferma decisione di rimanere in Lui (nella volontà del Padre).
Gesù è Dio e uomo, e in quanto uomo anch’Egli era soggetto a tentazione: e come i discepoli, anche Lui avrà sentito i sinuosi turbamenti della vanagloria, dopo il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci. E se ai discepoli ha sollecitato l’immediata rettifica del loro probabile istinto di superbia, così come abbiamo già sopra argomentato, Gesù stesso avrà avuto l’impellente urgenza di placare ogni umana attrazione, fermandosi a pregare, per ribadire la sua uniformità col Padre.
Chi lo sa se, «venuta la sera» (tra l’altro l’espressione opsías genoménes è presente anche in Mt 14, 15: «Sul far della sera [opsías genoménes], gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”»), nei pressi del lago di Galilea, Gesù sarà stato oggetto di tentazione? Chissà se avrà sentito nell’intimo delle sue viscere le tenaglie di un’altra sera, quella della sua Passione e del suo sepolcro? Ma, «venuta la sera», dopo il prodigio della straordinaria moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù non ha mancato di attanagliarsi in unità col Padre; non ha mancato di ribadire che Egli era venuto non per quella sera di trionfo (aveva sfamato una immensa folla con un prodigio inaudito), bensì per quell’altra sera, che sarebbe stata sera di Croce e di morte (certamente prodromica al Trionfo definitivo [ma così difficile da intendere per la natura umana] della Risurrezione).
Nel versetto in questione, difatti, c’è una piccola parolina che però, alla luce di quanto detto, diviene immensamente densa di significato: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo (mónos)».
Non occorre argomentare come l’aggettivo mónos valga certamente «solo/da solo», ma tecnicamente intenda «uno/unico».
Come il Figlio, venuta la sera della morte, era compiutamente «uno» con il Padre; così il Figlio, venuta la sera sul monte della Galilea, ribadiva che «unica» era la volontà sua e del Padre.
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.