Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 2 Agosto 2020

Una compassione intelligente

La pericope evangelica della XVIII domenica del tempo Ordinario dell’annata A inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista (cf. Mt 14,13). Come si era ritirato dopo aver saputo dell’arresto di Giovanni (Mt 4,12), ora, venuto a sapere della sua esecuzione capitale, analogamente si ritira, fa anacoresi. Il rapporto di Gesù con Giovanni è profondo anche nella distanza. È come se la presenza di Giovanni abitasse in Gesù: la notizia della sua morte provoca un’eco profonda in lui, una risonanza certamente di tipo affettivo, ma non solo. Immerso nel Giordano da Giovanni, Gesù ne è stato un seguace, e il loro incontro è stato un evento spirituale in cui l’uno ha riconosciuto la vocazione dell’altro ed entrambi si sono obbediti a vicenda pur di compiere il volere del Padre (cf. Mt 3,13-17). Ora, morto Giovanni, Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni. È come se la morte di Giovanni divenisse un messaggio per lui, un passaggio di testimone. Quando, vedendo le folle che lo avevano seguito sottraendolo di fatto alla solitudine che cercava, Gesù abdicherà al proposito di ritiro per prendersi cura di loro, lo farà anche assumendo la postura pastorale nei confronti di gente che, come specifica Marco nella sua redazione evangelica, “erano come pecore senza pastore” (Mc 6,34) perché orfane del Battista. In ogni caso, noi abbiamo qui l’espressione di quella ricerca di solitudine e ritiro che ha caratterizzato la vita di Gesù (Mt 14,23; Mc 1,35.45; 6,31; Lc 5,16; Gv 11,54). Gesù non fugge di fronte al vuoto in cui consiste il lutto per la perdita dell’amico e maestro, non si stordisce, ma cercando la solitudine tenta di rendere eloquente per lui tale perdita. Gesù coltiva il vuoto della morte di Giovanni e così quella morte diventa generativa e produttrice di vita. Non a caso il racconto evangelico che inizia con la notizia della morte di Giovanni, si chiude con l’atto con cui Gesù dà vita alle folle curando i malati e dando loro da mangiare. E come la morte di Giovanni è stata elaborata da Gesù facendone un atto di responsabilità che l’ha impegnato nei confronti delle folle, così egli spingerà i suoi discepoli a un’analoga assunzione di responsabilità nei confronti della gente affamata dicendo loro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16).

La notizia della partenza di Gesù verso un luogo solitario si sparge e le folle, a piedi, seguono Gesù che invece si è spostato su una barca. Ci troviamo dunque nei dintorni del lago di Tiberiade. La “sequela” che le folle attuano di Gesù, in questo caso, contraddice l’intento di Gesù. E la contraddizione appare nella sua “violenza” quando veniamo a sapere, al termine del racconto, che quelle folle constavano di migliaia di persone (Mt 15,21). Gesù non cerca le folle, anzi, a volte, scoraggia le folle numerose che lo cercano e le mette in guardia (cf. Lc 14,25). Gesù non è certo incantato dal numero consistente di ascoltatori, ma non si sottrae nemmeno al loro grido, al loro bisogno, alla loro sete. Quando infatti scende dalla barca “prova compassione” per loro e accetta di “cambiare programma” mostrando duttilità e capacità di cogliere nella folla che lo distrae dal suo proposito di solitudine e silenzio, un appello da ascoltare e a cui obbedire. La solitudine e il ritiro sono un’esigenza per Gesù, ma egli non è così rigido da fare dei propri pur giusti e giustificati progetti una barriera che gli impedisca di ascoltare il bisogno degli altri. E a motivo della carità egli deroga dal suo progetto di ritiro. Anzi, provando compassione, sentendosi cioè sconvolto nelle viscere dalla visione delle folle che lo cercano mendicando la sua presenza, egli sente anche la loro sofferenza, entra in contatto con la loro mancanza e, mentre si prende cura di loro e fa loro il bene, fa certamente il bene anche a se stesso. Sofferente per la morte di Giovanni, Gesù è particolarmente disponibile e aperto a sentire la sofferenza delle folle, la loro mancanza, e ad agire di conseguenza. Nessun moto di fastidio e nessuna ribellione di fronte alle folle numerose, ma l’assunzione del dato di realtà per fare di quella contraddizione un’occasione per vivere l’obbedienza a Dio. Anche altrove Matteo riporta la compassione di Gesù per le folle (per esempio, in Mt 9,36) e questo movimento profondo dell’animo non va ridotto a un semplice sentimento, a un semplice sommovimento interiore, ma va colto anche nella sua forza cognitiva. La compassione è anche intelligenza dell’altro. Intelligenza che comporta almeno un giudizio che vede la grave situazione di bisogno dell’altro e una valutazione di innocenza, per cui l’altro non ha colpa della situazione penosa in cui si trova. Infine, la compassione comporta l’azione, l’intervenire in favore dell’altro. E Gesù, dice Matteo, cura i malati (Mt 14,14). Non si dice che li guarisce, ma che li cura e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, averne sollecitudine, assumersi la responsabilità della loro persona, prendersene cura. E così passa la giornata e viene la sera (Mt 14,15).

Entrano ora in scena i discepoli che si rivolgono a Gesù con parole di realismo disimpegnato. Essi fanno presente a Gesù ciò che Gesù già certamente sapeva, ovvero che il luogo è solitario e l’ora è tarda e dunque occorre rimandare le folle affinché se ne vadano nei villaggi per acquistare cibo. La presenza di Gesù, maestro e guida, sembra deresponsabilizzarli: dicono a Gesù cosa deve fare nei confronti delle folle. Non si interrogano su ciò che eventualmente loro stessi possono fare, ma insieme (Mt 14,15: “i discepoli”, dunque tutti), come tutti quanti incapaci di autonomia e di iniziativa, si rivolgono a lui affinché faccia quel che vogliono loro. Ma la risposta di Gesù mostra che il suo pensare non coincide con il pensare dei discepoli. Ed è un pensare che li responsabilizza rinviandoli a loro stessi. “Non hanno bisogno di andarsene; date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Come altrove nei vangeli, l’obiezione dei discepoli si richiama a ragionevolezza, a buon senso, e si nutre di quella malcelata superiorità e condiscendenza che si ha nei confronti di chi non si rende conto della realtà. E diviene anche un mascherato rimprovero. Non è forse così quando i discepoli dicono a Gesù che, in mezzo alla calca, si è sentito toccato nelle sue vesti: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: ‘Chi mi ha toccato?’” (Mc 5,31). Qui l’obiezione verte sulla risibile quantità di cibo che i discepoli hanno a disposizione: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci” (Mt 14,17). E si potrebbe aggiungere: “Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?” (Mt 15,33). C’è un realismo che è mancanza di fede, che diventa un impedire al Signore di intervenire nella storia, che ostacola il novum che Dio può operare. In questo caso i discepoli è come se dicessero che la loro povertà, la pochezza a loro disposizione, è ciò che impedisce loro di adempiere la parola di Gesù. Chiediamoci: non è forse una tentazione che abita i cristiani quella di ritenere che la povertà, la mancanza di mezzi sia ciò che ostacola l’evangelizzazione, l’annuncio e la testimonianza del vangelo? Per Gesù è l’esatto contrario: la povertà è condizione necessaria dell’annuncio evangelico. Il vangelo impoverisce e spoglia chi se ne vuole fare testimone e servo. E solo così l’annuncio è fecondo.

E la via indicata di Gesù è quella della condivisione. Il poco, condiviso, diventa sufficiente per tutti. E Gesù imbandisce un banchetto, anzi il banchetto messianico. Tra i compiti del Messia vi è quello di assicurare il pane al popolo. Il re Davide, figura del Messia venturo, aveva distribuito una focaccia di pane per ciascuno dei membri del popolo d’Israele (2Sam 6,19). Gesù qui si manifesta come colui che realizza l’operare del Dio che “dà il cibo a ogni vivente” (lett. “il pane a ogni carne”: Sal 136,25), come il pastore che fa sedere sull’erba verde (Mt 14,19) il suo gregge e lo rifocilla e sostiene (cf. Sal 23). Il testo può certamente anche essere colto come prefigurazione del banchetto eucaristico (cf. Mt 14,19), tuttavia può essere utile terminare la riflessione ricordando che le parole di Gesù “Voi stessi date loro da mangiare” si rivolgono anche a noi oggi e diventano una spina nella carne che interpella le chiese di fronte alla tragedia della fame nel mondo. Le parole di papa Benedetto XVI conferiscono una dimensione politica e mondiale al comando che Gesù rivolse ai suoi discepoli: “La fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito … di sedersi alla mensa del ricco epulone. Dare da mangiare agli affamati (cf. Mt 25,35.37.42) è un imperativo etico per la chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuta, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale” (Caritas in veritate 27). La prassi messianica di Gesù passa così nella realtà ecclesiale e diviene parola e azione profetica.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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