Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Il tesoro e lo scriba

Dividiamo il presente commento in due parti. Nella prima leggiamo integralmente la pagina della liturgia di oggi. Dopo, daremo spazio a un approfondimento sulla parabola del tesoro nascosto.

Si conclude con questa domenica il capitolo delle parabole del Regno nel Vangelo secondo Matteo. Ne abbiamo addirittura tre, molto brevi, tutte introdotte dalla formula «il regno dei cieli è simile a…». Le prime due parabole, quella del tesoro e della perla, sono accomunate dall’idea di un ritrovamento: «il regno dei cieli, strettamente parlando, non è simile a un tesoro, tanto meno è simile a un mercante: ma è simile a quello che succede quando si scopre un tesoro, o quando un mercante trova una perla di grande valore» (Mello), ma anche nell’ultima parabola passa il messaggio che qualcosa (i pesci), nascosti sotto il mare, possano essere trovati e raccolti.

Diversi sono i denominatori delle nostre parabole. Il primo potrebbe essere dato dall’opposizione “sopra”-“sotto”: il tesoro, la perla, i pesci, sono nascosti, cioè “sotto” la terra, sotto altre perle di minor valore, sotto il mare. “Sopra” c’è la superficie, l’apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Non che ciò che si vede sia finto, tutt’altro: vi è però anche una realtà più profonda, sommersa, un mondo che c’è, ma nemmeno si immagina possa esistere finché non lo si scopre. Ricordiamo tutti quanto scriveva nel Piccolo Principe De Saint-Exupéry: «L’essenziale è invisibile agli occhi; non si vede bene che col cuore». Per trovare il tesoro, scovare la perla preziosa, pescare dei buoni pesci, bisogna cercare “sotto” qualcosa, e cercare (come vedremo) sapientemente.

Il secondo denominatore è dato dalle conseguenze del ritrovamento. Chi trova un tesoro deve rinunciare a tutto il resto, che deve vendere per comprare il campo dove il tesoro è nascosto; chi trova la perla deve fare lo stesso; chi ha visto i pesci sotto la superficie del mare non può fermarsi a contemplarli ma subito deve tirare le reti prima che i pesci scappino, e poi con fatica deve portare la barca a riva.

La terza realtà dipende dalla precedente: la gioia. Se è espressamente citata solo nel caso del ritrovamento del tesoro («pieno di gioia vende i suoi averi», Mt 13,44), possiamo immaginarci che anche i pescatori esulteranno quando trovano di che vivere, e il mercante possa senza dubbio essere soddisfatto per l’affare che sta per concludere. Se si deve rinunciare ai propri beni, a quello che si ha, a qualcosa che dà sicurezza, non è mai per un’ascesi fine a se stessa o per il gusto della rinuncia: è per la gioia, perché il Regno porta una ricompensa infinitamente più grande di quanto si deve lasciare per entrarci. La stessa logica, sembra, è usata da Gesù per spiegare che chi lascia i beni o gli affetti per il Regno avrà già in questo mondo la gioia del centuplo (cf. Mt 19,29).

Infine, possiamo notare che sotto i simboli del tesoro e della perla si cela forse una realtà che è quella della Sapienza. Ricordiamo la donna forte di Proverbi 31,31, paragonata alle perle («una donna virtuosa chi potrà trovarla – cioè scovarla, come si scova un tesoro – superiore alle perle è il suo valore»), e che però è essa stessa probabilmente immagine della Sapienza. Le nostre parabole dicono come sia molto più saggio rinunciare al poco per avere il molto, come sia molto più intelligente aprire le mani piuttosto che tenere stretto un tesoro per paura di perderlo. Anche Gesù non ha “tenuto stretto” il suo tesoro, l’essere Dio (cfr. Fil 2,6), pur di salvare il suo popolo.

Molti studiosi ritengono che nel Vangelo secondo Matteo sia particolarmente importante l’ultima frase del nostro discorso parabolico: lì è Gesù a dire che «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52), ma in realtà si potrebbe leggere dietro queste parole l’autoritratto di Matteo, l’evangelista. Il nome Maththaios (Matteo) ha qualche assonanza con il greco che traduce “discepolo”: mathetes (cf. “diventare discepolo”: matheteuo), e questa parola interpreterebbe bene il ruolo svolto da questo scriba, istruito nella Torah (le cose antiche), che viene però da lui vista in una luce nuova, quella del Regno annunciato dal Messia Gesù (le cose nuove). Non tutti sono d’accordo: Hagner, ad esempio, ritiene che nella Chiesa giudeo-cristiana delle origini molti possano essere considerati come questo “nuovo tipo di scriba”. Anzi, potremmo aggiungere: ognuno che ancora oggi è capace di comprendere le parole di Gesù, anche quelle più difficili («Avete capito tutte queste cose? Gli risposero: Sì»; Mt 13,51), che quindi sa leggere anche oltre la superficie delle cose, questi è davvero come quello scriba sapiente che «penetra le sottigliezze delle parabole, indaga il senso recondito dei proverbi e s’occupa degli enigmi delle parabole» (Sir 39,2), e che ora può andare alla scuola del Maestro.

Dio conceda anche a noi, oggi, “il discernimento dello Spirito” per comprendere la Sua parola e così «apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del suo regno» (Colletta).

 

La parabola del tesoro nascosto: approfondimento

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo».

Questo versetto del vangelo di Matteo di oggi fa parte del terzo discorso di Gesù, centrato sul Regno di Dio. È una parabola esclusivamente matteana, che non si trova negli altri vangeli canonici, ma ha un parallelo nell’apocrifo Vangelo di Tommaso.

Il Signore, anzitutto, offre la proposta di una similitudine: non abbiamo una concettualizzazione astratta sul Regno, ma la storia di un tesoro e di una persona, anthrōpos, che trova quel tesoro nascosto. Il Regno dei cieli, ci dice anzitutto la forma della parabola, non è un principio, una regola, un’astrazione, ma qualcosa di molto concreto – come un tesoro – che tocca la vita di una persona, di un uomo o una donna. È così ogni volta che Gesù parla del Regno: invano cercheremmo una sua definizione nei vangeli: le definizioni sono nei buoni dizionari biblici e teologici. Nei vangeli non ci sono; ci sono solo esempi, parabole, similitudini, come quella che stiamo leggendo, e che inizia proprio così, con la frase «homoia estin»: “è simile…», non “è esattamente…”.

Il tesoro di cui parla Gesù non è stato perduto da qualcuno – alludiamo alle tre parabole di Luca del capitolo quindicesimo sulla pecora, la moneta, e il figlio minore che si smarriscono – e quel tesoro nemmeno deve essere “costruito”, come si costruisce una casa (quella di cui si parla, la casa sulla roccia o sulla sabbia, alla fine di questo capitolo tredicesimo del vangelo di Matteo). Il tesoro c’è, c’è già, anche se è nascosto.

Non si dice perché sia nascosto, e chi l’abbia interrato in un campo; e Gesù non rivela nemmeno che cosa contenga. Una situazione molto diversa da quella descritta nel famoso Rotolo di Rame (3Q15), trovato nella grotta numero 3, vicino a Qumran, con un elenco di un’immensa quantità di tesori nascosti tra Gerusalemme, Gerico e il Garizim, e che iniziava così: «…nella rovina che si trova nella valle di Akor, sotto le scalinate che vanno verso est per quaranta cubiti, c’è una cesta d’argento, il cui peso complessivo è di diciassette talenti. Nella tomba nella terza fila di pietre ci sono 100 lingotti d’oro…», e così via (trad. F. García Martínez). Qualche archeologo ha organizzato delle spedizioni alla ricerca dei tesori della mappa di Qumran, ma non risulta che siano mai stati scoperti. Il tesoro di cui parla Gesù è molto diverso, ma c’è, lo assicura lui, perché qualcuno l’ha proprio trovato.

Il verbo che descrive lo stato di quel tesoro è kryptō: è nascosto “sotto”, come le cripte delle chiese antiche. Sotto la superficie, come delle altre cose di cui parla Gesù in questa stessa sezione del discorso sul Regno, la perla preziosa e i pesci. La prima c’è, ma è mischiata ad altre perle, false, senza valore: si trova sotto altre perle, nascosta in mezzo al mucchio. Anche i pesci sono sotto la superficie dell’acqua del mare di Galilea – è quello il luogo da cui Gesù sta parlando – il lago davanti a Cafarnao: i pesci non si vedono, sono “nascosti”, ma ci sono.

Il tesoro, dice la parabola, c’è e viene trovato. I commentatori si sono soffermati a lungo sulla modalità di questo ritrovamento, e si sono divisi per capire se si tratti di un ritrovamento “fortuito”, senza meriti (Turner, Luz) o dovuto ad una ricerca. Il detto dell’apocrifo Vangelo di Tommaso, che dipende da Matteo, ha una sua versione: «Gesù dice: “Il Regno assomiglia a un uomo che aveva nel suo campo un tesoro nascosto, ma non sapeva che fosse lì. E dopo che fu morto, lo lasciò a suo figlio. Ma nemmeno il figlio sapeva che fosse lì. Il figlio si fece carico di quel campo e lo vendette. E colui che l’aveva comprato vi andò e, mentre lo arava, trovò il tesoro”» (VgTom 109; trad. Puig i Tàrrech e C. Gianotto).

La versione apocrifa è molto interessante, ma anche molto diversa da quella di Matteo. Nel Vangelo di Tommaso il tesoro è trovato fortuitamente, ma nell’originale di Matteo non si chiarisce se il verbo heuriskō (trovare) lasci intendere che piuttosto che “cercato”. Forse, a mio parere, dato che nel vangelo di Matteo il verbo trovare appare poco avanti, nel “Discorso della montagna”, quando Gesù dice che bisogna prima cercare per trovare – «cercate e troverete» (7,7) – si può dire che per trovare quello che è nascosto “sotto”, si deve cercare di vedere meglio: sottoterra, per trovare un tesoro; tra tante false perle, per trovarne una preziosa; sotto la superficie dell’acqua, per fare una buona pesca. Come il mercante che la perla va a cercarla, e come il pescatore che decide di uscire con la barca, anche quell’uomo potrebbe aver capito che un tesoro va cercato.

Trovato il tesoro, è la gioia che permette al protagonista della parabola di tornare a casa per vendere tutto: la vera storia della parabola, sostiene qualcuno (così, ad es., Bovon), inizia proprio da questo punto. Ma prima, si dice che dopo aver scoperto il tesoro, quell’uomo lo nasconde di nuovo.

Quanta differenza tra questo atteggiamento e quello probabile di un nostro contemporaneo, che forse avrebbe postato subito la notizia su un social media, allegando magari la posizione del tesoro via whatsapp, sperando così di poter veder crescere il numero delle proprie amicizie e dei contatti.

La parabola di Gesù invece dice che è necessario un tempo di riservatezza, un’attesa non meglio quantificabile, la salvaguardia di un segreto. Ci torna alla mente quello che si legge nel libro di Tobia, quando l’anziano padre raccomanda al giovane figlio di «tenere nascosto il segreto del re» (Tb 12,7), presumendo forse quel detto egiziano antico, «Non parlare delle cose del Faraone quando bevi della birra» (Wisdom of Ankhsheshonqy 16:16), ovvero: stai attento perché, magari un po’ ubriaco, puoi rivelare qualcosa che non dovresti, come il povero Renzo de I Promessi Sposi, che, ubriaco, rivelerà il suo nome al poliziotto dell’osteria della Luna Piena, e da lì a poco verrà arrestato, e sarà costretto a scappare per anni…

Nascondere il tesoro per poter comprare il campo esprime l’idea che si tiene profondamente a quello che si è trovato; che si riconosce che è importante, che si deve fare di tutto per non perderlo, evitando che, magari perché si è distratti o presi da altre cose, si torni poco dopo in quel campo e si scopra che il tesoro non c’è più.

 

Dopo aver nascosto di nuovo il tesoro, chi l’ha trovato fa qualcos’altro di molto importante: vende tutto ciò che ha per comprare il campo. E da ciò si potrebbe dedurre che chi ha trovato il tesoro non sia un benestante, ma un bracciante che deve avere il coraggio di lasciare tutto quello che aveva. La parabola di Gesù, a questo proposito, si distingue notevolmente dalla versione del Vangelo di Tommaso, dove chi trova il tesoro è già ricco, e non ha bisogno di vendere nulla per comprare il campo. Si distingue anche da storie, favole, leggende che circolavano già nell’ambiente giudaico e altrove, commentate da lunghe discussioni giuridiche, testimoniate anche nel Talmud e nel diritto romano, circa il diritto di trattenere qualcosa di prezioso che veniva trovato nella proprietà altrui. Gli esegeti della parabola, poi, hanno anche discusso per capire se chi trova il tesoro agisca immoralmente o contro la legge, nascondendolo di nuovo, senza rivelare la cosa al proprietario del campo… (cf. Davies – Allison)…

Ma la parabola non vuole dirci nulla a riguardo, e non deve essere letta moralisticamente. Qui, piuttosto, si insiste piuttosto sulla gioia. È la stessa gioia di quei sapienti venuti dall’oriente che, sempre nel Primo vangelo, dopo aver cercato nel cielo, vedendo la stella «provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10).

La prova che si tratta di un tesoro vero – che non è una fake news – è dunque la gioia. Questa parola, che ci riporta al documento fondamentale del pontificato di papa Francesco, Evangelii gaudium, ci dice che le vere scoperte della vita, ciò che davvero conta, ci portano alla gioia. Ha ragione il Santo Padre a metterci in guardia dalle tristezze che invece vengono dalle false scoperte che caratterizzano il «mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, [che porta con sé il rischio di] una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» (EG 2). C’è solo una gioia vera, quella che accompagna la vera scoperta, e lo sappiamo.

A leggere meglio il testo greco, però, vi troviamo ancora qualcosa di più. Dalla traduzione CEI si evince che quell’uomo venda tutti i suoi averi e compri il campo, e tutto questo «pieno di gioia»: la gioia, cioè, accompagnerebbe queste due azioni, pōleō, vendere, e agorazō, comprare. Ma la preposizione apo, prima di gioia, è piuttosto causale (cf. Zerwick): “a causa della sua gioia”, dovremmo tradurre; “per la gioia” si può vendere e comprare, si può lasciare tutto per quel tesoro. Lo stesso traduce la CEI quando «apo tes charas» si trova in Lc 24,41, e si legge che «per la gioia i discepoli non credevano ancora ed erano pieni di stupore» davanti al Risorto. Anche san Girolamo aveva capito la sfumatura, e traduceva infatti che prae gaudio illius quell’uomo va a vendere tutto. Insomma, la gioia non è solo una condizione che caratterizza il nostro protagonista: è ciò che lo muove davvero. A causa di quella gioia, che forse (si può pensare) non aveva mai sperimentato prima, ci si può muovere e si può osare.

Potremmo usare la stessa metafora della “Chiesa in uscita” per dire che l’acquisto di quel campo comporta davvero l’uscire da uno spazio o da uno stato che ci garantivano sicurezza. Vendere tutto ciò che si possiede non è affatto facile: e infatti, nei vangeli, è ben nota la storia di quel giovane che non riesce a seguire Gesù perché aveva paura di lasciare quello che aveva (cf. Mt 19,16-22).

Siamo alla conclusione. Sono tante le possibili interpretazioni di questo versetto del vangelo. Nella sua spiegazione probabilmente più antica, quella contenuta nella versione del Vangelo di Tommaso che abbiamo ricordato, si parla della vita dello gnostico che «in un mondo (il campo) pieno di persone (l’uomo e suo figlio) che non conoscono l’accesso al Regno della luce e della verità (il tesoro nascosto) c’è una persona (il compratore del campo) che si impegna per trovare la conoscenza (ara il campo) […]» (cf. C. Gianotto), ma nella parabola originaria c’è qualcosa di più semplice. Il suo significato principale sembra stare piuttosto nel fatto che una volta scoperto il Regno – come si trova un tesoro in un campo – si deve fare di tutto per ottenerlo (cf. Davies – Allison).

Questa parabola allora pone anche a noi lettori di oggi alcune domande, che possono essere declinate in senso ecclesiale e pastorale, e che si possono formulare in questo modo.

1) Siamo convinti che ci sia davvero un tesoro? O rischiamo di pensare che non ci sia? La parabola dice che c’è, ma è nascosto. Così, commenta qualcuno, «il regno può essere presente, ma non viene percepito ancora» (Hagner). C’è forse qualcosa del Regno che non fatichiamo a vedere, che non vediamo, di cui nemmeno ci accorgiamo?

2) E cos’è per noi oggi il tesoro (qualcosa che esprime il Regno) che potremmo trovare? Come lo immaginiamo? Qual è la “cosa” più importante per cui, anche per la chiesa, si può lasciare tutto pur di comprare il campo in cui è nascosta? Nella tradizione biblica, spesse volte il tesoro rappresenta la sapienza, come in Proverbi 2,4 («Figlio mio, se… tendendo il tuo orecchio alla sapienza… la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori…») o in Siracide 20,30. Vorremmo che fosse qualcosa di particolare, e magari lo immaginiamo come le ricchezze tangibili dei quintali d’oro del Rotolo di rame? Siamo noi che stiamo decidendo cosa sia il tesoro? O forse non dovremmo arrenderci a trovarvi quello che ci viene donato, come quando da bambini potevamo aprire i regali dei nostri genitori, e non potevamo nemmeno immaginarci quello che ci fosse dentro?

3) Posto che un tesoro c’è, anche se non lo vediamo, dove lo cerchiamo e cosa facciamo per averlo? Quale campo stiamo arando (per riprendere il detto del Vangelo di Tommaso)? Dove investiamo, cioè, le nostre energie?

4) Siamo sicuri che stiamo davvero vendendo quello che abbiamo – e per essere molto concreti – che stiamo spendendo bene i nostri soldi, per comprare il campo dove c’è il tesoro? Oppure prendiamo tempo, non siamo sicuri di dover fare questo “investimento”, e, soprattutto, non lasciamo quello che dobbiamo? Ha ragione chi ha commentato (come U. Luz) che per comprare il campo dove c’è il tesoro, il protagonista accetta un grande rischio, quello di vendere tutto. Siamo disposti a correrlo?

5) Infine, e forse è la domanda che le racchiude tutte. Cos’è che ci muove, che muove la nostra chiesa, le nostre chiese? È la gioia, o è altro? Ci muove la paura (magari di perdere qualcosa), ci muove l’abitudine, l’inerzia, la disperazione? C’è una gioia che ci permette di spostarci, per vendere e comprare?


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